Martino Ragusa, il Blog

Ricette di cucina, cultura gastronomica e divagazioni

Febbraio 7, 2021
di martinoragusa
0 commenti

Pappardelle con i carciofi

Ingredienti per 4 persone

320 g di pappardelle all’uovo

8 carciofi

8  pomodori ciliegini

2 ciuffetti di prezzemolo (5 g + 5 g)

2 cipollotti con il loro verde

1/2 limone

buccia di limone grattugiata
1 spicchio di aglio

3 cucchiai di olio extravergine di oliva

pepe nero di mulinello o pestato nel mortaio

sale

Togliete le foglie esterne dei carciofi e tenete solo il cuore tenero eliminando la metà verso la punta. Tornite il fondo liberandolo della parte superficiale più dura. Tagliate ciascun cuore in 8 spicchi e metteteli a sbiancare dentro a una bacinella con 1 litro di acqua fredda acidulata con il succo di mezzo limone. Lavate i pomodorini, tagliateli a quarti e metteteli da parte. Scolate i carciofi, asciugateli e fateli appassire a fuoco dolce nell’olio olio con un battuto di cipollotti e prezzemolo. Quando il tutto è ben appassito, aggiungete l’aglio tritato e i pomodori. Fate insaporire per 5 minuti, poi salate, pepate e cuocete in 15 minuti a fuoco dolce aggiungendo l’acqua necessaria. A fuoco spento, completate con l’aggiunta di un ciuffetto di prezzemolo tritato e un po’ di buccia di limone grattugiata.

Pasta lenticchie e carne macinata

Agosto 19, 2020
di martinoragusa
0 commenti

Pasta lenticchie e carne macinata

250 g di lenticchie

200 g di carne di manzo macinata 2 volte

200 grammi di tagliarina siciliana spezzata o avemmarie (ditali molto piccoli) o altra pasta
1 carota

1 costa di sedano

1 cipolla

prezzemolo

2 spicchi di aglio

1 rametto di rosmarino

1 cucchiaio colmo di pomodori pelati tritati

olio extravergine di oliva

Pepe

Sale

Lavate le lenticchie e immergetele in acqua fredda scartando quelle che dopo qualche minuto vengono a galla perché bacate. Deponetele in acqua fredda con una ½ costa di sedano, 1 spicchio di aglio e 1/2 carota. L’acqua le deve sovrastare di 5 cm. Fate sobbollire per un tempo variabile a seconda del tipo di lenticchia, di solito intorno a  40 minuti. Salate a fine cottura, scolate e tenete da parte sia le lenticchie sia il loro brodo. . Fate un battuto con ½ carota, ½ cipolla e 1/2 costa di sedano, il prezzemolo, il rosmarino, l’aglio e soffriggetelo a fuoco bassissimo in olio di oliva finché non appassisce. Aggiungete la carne, unite i pomodori rossi pelati e fate insaporire il tutto, coprite con un po’ di brodo delle lenticchie e fate cuocere il sughetto a fuoco lento per mezzora. Aggiungete le lenticchie già lessate e regolate il livello del liquido con l’altro brodo ed eventuale acqua bollente in modo che si possa cuocere la pasta e ottenere una minestra piuttosto asciutta. Calate la pasta, aggiustate di sale, pepate e portate a cottura. Nel piatto, un giro di olio extravergine di oliva.

pesto di zucchine

Giugno 27, 2020
di martinoragusa
2 commenti

Pasta con il pesto di zucchine

Ingredienti per 4 persone 

320 g di pasta (formato a piacere)

600 g di zucchine

20 foglie di menta comune (non piperita)

2 pomodori rossi (200 g circa)

2 spicchi di aglio

30 g di pecorino stagionato grattugiato

olio extravergine d’oliva

pepe nero

sale grosso

Tuffate i pomodori in acqua bollente per 2 minuti, passateli nell’acqua fredda e pelateli. Privateli dell’acqua di vegetazione e tritateli grossolanamente con un coltello.

Mondate le zucchine, lavatele e tagliatele per il lungo prima in due e poi in quattro. Tagliate ciascun quarto di zucchina a tocchetti di circa 1 cm.  Versate un po’ di olio in una padella, fatelo riscaldare e friggetevi le zucchine fino a quando raggiungono la doratura. Non esagerate, devono avere un colore biondo chiaro. Fatele scolare dentro un colino e tenetele da parte un quarto. Mettete i tre quarti in un mortaio assieme ai pomodori tritati, gli spicchi d’aglio spellati, la menta, il pepe e qualche grano di sale grosso.  Pestate roteando spesso il pestello contro le pareti del mortaio. Quando il tutto è ridotto in poltiglia, aggiungete il pecorino grattugiato, 4 cucchiai di olio, le zucchine fritte che avete tenuto da parte e mescolate con un cucchiaio.

Lessate la pasta, scolatela e tenete un po’ di acqua di cottura. Conditela con il pesto di zucchine e ammorbidite con un po’ di acqua di cottura.

Aprile 25, 2020
di martinoragusa
0 commenti

Risi e Bisi del Doge

risi e bisi del doge (risotto con i piselli)

Ancora oggi il piatto che vi propongo viene preparato per San Marco, il 25 aprile, a Venezia e non solo. Il nome deriva dall’usanza, durata secoli, di offrirlo simbolicamente al Doge nel giorno della festa del Patrono della Serenissima. Con molte varianti è tuttora diffuso in tutto il Veneto e, fatto più singolare, in buona parte del bacino orientale del Mediterraneo, e cioè in Dalmazia e nelle isole greche che della Repubblica Veneta facevano parte, ma anche nella Grecia di terraferma, in Turchia e nel Libano.

Ingredienti per 4 persone

300 g di piselli piccoli dolci sgranati

500 g di piselli mangiatutto (facoltativi)

350 g di riso fino (Carnaroli) o semifino (Vialone)

50 g di pancetta cruda stesa (facoltativa)

2 cipollotti

1 cipolla

30 g di parmigiano reggiano grattugiato

2 cucchiai di olio extra vergine d’oliva

30 g di burro

1 ciuffetto di prezzemolo

1 cucchiaio raso di semi di anice

Pepe bianco

Sale

preparazione

Fate bollire in due litri di acqua leggermente salata i piselli interi mangiatutto, la cipolla e l’anice e passate il tutto al passaverdura, aggiustate di sale e tenete in caldo a fuoco basso. Oppure fate un brodo con i pbaccelli dei e filtratelo. Preparate un trito con i cipollotti, il prezzemolo e la pancetta a dadini e fatelo rosolare nell’olio a fuoco lento per 6-7 minuti senza lasciarlo colorare. Unite i piselli freschi sgranati e il riso che farete rosolare velocemente. Salate appena e bagnate con il passato di piselli mangiatutto (o il brodo di baccelli). Continuate la cottura mescolando spesso e aggiungendo poco alla volta il passato (o il brodo di baccelli) in modo che il riso risulti sempre coperto di liquido. A fine cottura, unite il parmigiano grattugiato, un pizzico di pepe bianco e una noce di burro.

Ricordate che i risi e bisi del Doge non sono un risotto ma una minestra densa, il piatto deve dunque avere consistenza tale da essere consumato con il cucchiaio e non con la forchetta.

Aprile 22, 2020
di martinoragusa
0 commenti

Salutismo (fisico e mentale) e meridionalizzazione della cucina italiana

Ormai si sa molto degli effetti degli alimenti sulla salute e, pur senza medicalizzare la tavola, è irrinunciabile perseguire il principio di una cucina che sia apportatrice di salute e non un pericolo per essa.

Il primo effetto di una cucina attenta alla salute è lo spostamento del suo baricentro al sud. La piramide alimentare inventata dagli studiosi americani dell’USDA (United States Department of Agriculture ) mostra nelle sue due zone più basse, in qualità di alimenti più consigliati, la verdura e i cereali e nelle più alte, come cibi da limitare, le carni e grassi animali. E’ il trionfo della dieta mediterranea che consacra il sud d’Italia come giacimento di quanto possa far bene alla salute in termini di grassi insaturi, polifenoli, cotture brevi e piatti crudi.

Ma la meridionalizzazione della cucina è cominciata molto prima della diffusione della piramide alimentare. Risale ai primi anni del novecento quando iniziò in turismo marino verso località del sud come Sorrento, Positano, Capri, Ischia, Taormina. Gli italiani del Nord in vacanza o in soggiorno al mare per curare malattie respiratorie presero confidenza con la pastasciutta, la pizza, l’olio di oliva, i pesci di scoglio, le verdure e i sapori piccanti mentre decollava l’industria del pomodoro in scatola accompagnata dal messaggio pubblicitario del sole del sud disponibile per tutto l’anno in tutto il paese.

La cucina meridionale riguarda, però, anche la salute mentale. Il Nord metropolitano e cosmopolita è rimasto stregato dalla cucina degli altri non solo per moda, ma soprattutto perché ha trovato l’alternativa dietetica a una cucina tradizionale “del burro” e “del maiale” troppo impegnativa per le arterie.
Ma l’esagerata devozione a cous cous, bulgur, sushi, poké bowl eccetera (l’elenco è lungo e noto a tutti) in fondo è un tradimento delle proprie radici con le radici degli altri. Non va infatti dimenticato che cous cous, bulgur, sushi, poké bowl ecc. sono percepiti come novità ma in realtà sono piatti millenari e solide tradizioni di paesi lontani .
Il Sud, invece, è da sempre cosmopolita a causa delle numerosi dominazioni intensamente subite che l’hanno vessato ma anche arricchito e sprovincializzato. Perciò sente molto meno il fascino dell’esotico avendolo sempre trovato a casa propria.
Ora, il mangiatore settentrionale più attento ai problemi dell’dentità alimentare, e meno modaiolo, sembra accorgersi che c’è un menu esotico, salubre e tradizionale molto vicino. Fratello e non straniero, che parla la stessa lingua e alle cui tradizioni può anche ricorrere quando mancano sente la mancanza delle proprie sentendole, a giusta ragione, un po’ sue.

origanata

Aprile 21, 2020
di martinoragusa
0 commenti

Pizza origanata (Rianata)

L’origanata è una pizza tipica del trapanese che prende il nome dalla grande quantità di origano con cui si condisce Si prepara sia “alla pietra” nel forno a legna, sia  in teglia in quello domestico.

Ingredienti per 4 persone

Per la pasta

400 g di farina di grano duro

100 g di farina 00

5 g di lievito di birra liofilizzato

260 g di acqua tiepida.

2 cucchiai di olio di oliva

1 cucchiaino da caffè di zucchero

sale

Per il condimento

400 g di pomodoro rosso maturo

2 spicchi di aglio

50 g di pecorino grattugiato

50 g di primo sale

2 sarde salate
abbondante origano

olio di oliva

pepe

sale

Dissalate le sarde sotto l’acqua corrente e deliscatele. Tuffate i pomodori in acqua bollente per un minuto, pelateli, tritateli salateli con moderazione e riservateli dentro a uno scolapasta perché scolino l’acqua di vegetazione.

Tagliate il primo sale a dadini piccoli. Tritate l’aglio sottilmente. Sciogliete il lievito di birra con lo zucchero e un po’ di acqua tiepida. Fate la fontana di farina e mettete nel cratere la soluzione di acqua e lievito. Incorporate il liquido alla farina, unite l’olio, salate leggermente e cominciate a impastare. Unite il sale e continuate a lavorare la pasta fino a quando si stacca dalle mani e l’impasto è morbido, elastico e liscio.
Lasciate lievitare fino a quando l’impasto non raddoppia di volume, dopo stendetelo in uno strato sottile in una teglia unta con olio.

Distribuite il pomodoro e le sarde a pezzettini a intervalli regolari. Aspettate che la pasta raddoppi di nuovo e infornate nel forno a 200 gradi, già caldo, per 20 minuti.

Nel frattempo mescolate insieme l’origano, l’aglio tritato o pestato nel mortaio, il pecorino grattugiato e il primo sale a pezzettini.

Sfornate la pizza. Distribuite sulla sua superficie la miscela di origano e formaggi. Pepate, irrorate con un filo di olio e infornate nuovamente per altri 10 minuti.

carne murata

Aprile 14, 2020
di martinoragusa
0 commenti

Carne murata

Ingredienti per 4 persone

300 g di manzo in fettine (fesa o scanello)

250 g di pomodori maturi

600 g di patate

250 g di cipolle biancbe

olio extravergine di oliva

50 g di pane grattugiato

cipolla

origano

pepe

sale

Scottate i pomodori per 2 minuti in acqua bollente. Pelateli, privateli dei semi e tagliateli a tocchetti. Mondate la cipolla e tagliatela a fette sottili. Pelate le patate e tagliatele a fette di mezzo centimetro di spessore,

Versate un filo di olio in una teglia e sistemate uno strato di patate, aggiungete qualche tocchetto di pomodoro e qualche fettina di cipolla; salate con moderazione, pepate e cospargete con un po’ di origano e un filo di olio. Continuate con uno strato di carne, salatela leggermente e poi ricominciate con uno stato di patate.  Continuate fino a esaurimento degli ingredienti finendo con uno strato di patate sul quale spargerete in pane grattugiato e un filo di olio. Coprite con un foglio di carta stagnola e infornate a 180°C per 30 minuti. Sfornate, rimuovete la carta stagnola e infornate di nuovo per altri 20 minuti.

tortano di pasqua

Marzo 31, 2020
di martinoragusa
0 commenti

Tortano di Pasqua

Ingredienti per 8 persone:

200 g di farina 00

300 g di semola rimacinata di grano duro

300 g di acqua

5 g di lievito di birra liofilizzato

100 g  di mortadella

100 g  di salame napoletano in un unico pezzo

100 di formaggi misti (provolone, caciocavallo, pecorino ecc.)

80 g di pecorino

50 g di strutto

olio extravergine di oliva

1 cucchiaino di zucchero

sale

Sciogliete il lievito in un po’ di acqua tiepida presa dalla quantità totale assieme allo zucchero. Unite le due farine e setacciatele in una ciotola a formare la fontana. Nel cratere cominciate a versare la soluzione di acqua e lievito e incorporate le farina con una forchetta sbattendo come per fare una frittata. Continuate con il resto dell’acqua che aggiungerete e incorporerete sempre sbattendo. Quando è possibile, cominciate a impastare con le mani. Aggiungete il sale, lo strutto e lavorate fino a ottenere un impasto compatto, morbido ed elastico. Tagliate a dadini di !/2 c di lato il salame, la mortadella e il provolone.

Fate una palla e lasciatela lievitare fino a raddoppio del volume  in un angolo riparato della cucina.

Mettete l’impasto  sulla spianatoia infarinata e stendetelo con il mattarello infarinato per formare un rettangolo di circa 30×40 cm.

Coprite la superficie con il pecorino grattugiato. Pepate, aggiungete il salame, la pancetta e il provolone, arrotolate nel senso della lunghezza e chiudete a ciambella.

Fate lievitare ancora fino a raddoppio del volume e infornate a 180° per circa 40 minuti.

Marzo 30, 2020
di martinoragusa
0 commenti

Storia e identità della pizza siciliana

La cucina italiana annovera diversi impasti lievitati, fatti con farina di frumento o di altro cereale, cotti al forno e variamente conditi. Sono le focacce, distinte in due grandi famiglie: le rettangolari cotte in teglia, e le rotonde (o anche ovali) cotte sul pavimento del forno a legna. Queste erano note già ai Romani (il nome deriva dal tardo latino focacia, da focus), ed è ad esse che ci riferiremo d’ora in poi parlando di focacce.

Nel corso del tempo, in tutta Italia sono state apportate variazioni all’antica focaccia romana che però, nella sua essenza, è rimasta fondamentalmente un pezzo di pasta di pane schiacciato e cotto al forno. Tra le principali ricordo la pitta calabrese, la ciaccia toscana, la schiacciata siciliana, la sardenaria (o pissadella o pissalandrea) ligure.
La varietà di focaccia che si è differenziata a Napoli ha preso il nome di pizza ed è stata la più fortunata di tutte, tanto da raggiungere una notorietà universale.  La pizza moderna ha dunque un’indubbia origine napoletana ed è con essa che devono fare i conti tutti i prodotti da forno che recano questo nome.

Dall’antica focaccia alla pizza moderna

L’esatta sequenza dei passaggi che conducono dall’antica focaccia alla pizza moderna non è perfettamente nota ma è ricostruibile con buona approssimazione.
Le focacce antenate della pizza erano (e sono tuttora) insaporite con solo olio. Man mano, intervennero altri ingredienti variamente associati tra loro: pepe, strutto, lardo, ciccioli di maiale, acciughe o sarde salate, latticini, formaggi di vario tipo, pomodoro, origano, rosmarino, basilico. È stata la fortunatissima combinazione di pomodoro, mozzarella e basilico a dare origine alla pizza moderna. La napoletana, appunto.
A questo proposito, può essere utile notare che fino alla prima metà degli anni ’50 del secolo scorso le pizzerie si trovavano solo a Napoli, con l’eccezione del ristorante A Santa Lucia di Milano, aperto da un modenese appassionato di pizza napoletana nel 1929.

La prima pizzeria di Napoli (e quindi d’Italia e del mondo) fu l’Antica Pizzeria Port’Alba, ancora oggi attiva, che aprì nel 1738. Prima, la pizza era preparata in casa e venduta per strada dagli ambulati quasi esclusivamente a gente del popolo. Non ci sono dubbi che la prima pizza offerta dalla pizzeria Port’Alba fosse quella alla mastunicola, condita con strutto, formaggio e basilico (senza pomodoro), una tappa fondamentale nel processo di transizione dalla focaccia alla pizza moderna. Ricordo a chi volesse assaggiarla che è ancora preparata del ristorante Umberto a Napoli, in via Alabardieri.

Un’importante testimonianza sulla nascita della pizza è data nientemeno che da Alexander Dumas padre che nel Capitolo VIII de Il Corricolo (4 volumi pubblicati dal 1841 al 1843) scrive: “a Napoli la pizza è aromatizzata con olio, lardo, sego, formaggio, pomodoro, o acciughe sotto sale“.
Secondo la vulgata, la pizza margherita è stata creata dal panettiere Raffaele Esposito – detto Naso ‘e cane – impiegato presso la pizzeria Pietro… e basta, ancora oggi attiva con il nome di Brandi.  Secondo quella che ormai è confermato essere una leggenda, nel 1889 l’Esposito avrebbe ideato una pizza con i colori del tricolore (pomodoro, mozzarella e basilico) per dedicarla alla regina Margherita di Savoia, moglie di Umberto I re d’Italia, in visita a Napoli, chiamandola “margherita” in suo onore. In verità una pizza denominata “margherita” era già conosciuta a Napoli e pare che il nome fosse dovuto alla disposizione a corolla di fiore delle fette di mozzarella.

D’altra parte, una pizza molto simile alla margherita viene descritta nel 1849 dall’erudito napoletano Emmanuele Rocco nell’opera “Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti”

diretta da Francesco de Boucard. Scrive il Rocco: «le pizze più ordinarie, dette coll’aglio e l’oglio, han per condimento l’olio, e sopra vi si sparge, oltre il sale, l’origano e spicchi d’ aglio trinciati minutamente (e l’immancabile pomodoro). Altre sono coperte di formaggio grattugiato e condite collo strutto, e allora vi si pone disopra qualche foglia di basilico con delle sottili fette di muzzarella. Talora si fa uso di prosciutto affettato, di pomidoro, di arselle, eccetera. Talora ripiegando la pasta su se stessa se ne forma quel che chiamasi calzone».
Tanto veniva pubblicato nel 1849, quindi 40 anni prima della leggendaria invenzione di Raffaele Esposito.

Va a questo punto ricordato che Il 9 dicembre 2009 l’Unione Europea, rispondendo a una richiesta del Parlamento Italiano, ha concesso la denominazione di Specialità Tradizionale Garantita (STG) a tutela della pizza napoletana nelle due varietà Margherita e Marinara.

Il regolamento n. 97/2010, riportato nella Gazzetta Ufficiale del 5 febbraio 2010, riporta testualmente al punto 3.8 dell’Allegato II: “Le pizze più popolari e famose a Napoli erano la “marinara”, nata nel 1734, e la “margherita”, del 1796-1810, che venne offerta alla regina d’Italia in visita a Napoli nel 1889 proprio per il colore dei suoi condimenti (pomodoro, mozzarella e basilico) che ricordano la bandiera dell’Italia.

Offerta alla regina d’Italia, dunque, non creata per lei.

Il decennio che vide la diffusione della pizza nel territorio italiano fu quello che va dal 1955 al 1965, gli anni dell’emigrazione dal meridione verso le grandi fabbriche del settentrione. Ma la pizza prese anche la via del sud e per quanto riguarda la Sicilia, la prima pizzeria ad aprire a Palermo fu la Bellini, nel 1955 nei locali dell’omonimo teatro. È tutt’ora attiva.  Va notato che, a quanto riferisce l’attuale gestore, il suo primo pizzaiolo fu mandato dal proprietario del tempo a Napoli per apprendere i segreti del mestiere.
Paradossalmente, prima ancora che nel resto d’Italia la pizza si diffuse nei grandi città degli Stati Uniti, soprattutto New York, Chicago e San Francisco, dove fu importata dai tanti napoletani laggiù emigrati. Così, la celeberrima pizza-pie deliziava il palato e dava qualche sollievo alla nostalgia degli italo-americani già nella prima metà del ‘900. A proposito, basta pensare che la pizza è celebrata nella canzone “That’s amore” portata al successo da Dean Martin nel 1952, quando evidentemente la pizza era già un’affermata star della gastronomia americana.
Ricordo l’attacco del refrain: When the moon hits you eye/ like a big pizza pie /

That’s amore.
(Quando la luna colpisce il tuo occhio/come fosse una grande di pizza/questo è amore).

La pizza siciliana

A differenza della napoletana, la pizza siciliana non ha una sua ricetta codificata,

I miei studi mi hanno portato a concludere che si può considerare un ibrido tra due preparazioni: la schiacciata e la pizza napoletana. Chiarisco che questa mia affermazione è dettata, oltre che dalle testimonianze e dai pochi documenti disponibili, dall’osservazione delle caratteristiche del prodotto studiato e dalla sua contestualizzazione storica. Se attentamente “lette” e ben suffragate da testimonianze, le ricette sono paragonabili a veri e propri documenti.

La schiacciata siciliana è diffusa intutta la Sicilia con vari nomi: muffulettu, cabucio, cudduruni, fuazza.  Ai diversi nomi corrispondono altrettante varianti tutte però molto simili tra loro. Si tratta di una focaccia molto semplice, ottenuta spianando con le mani una palla di pasta di pane fino a darle la forma di disco la cui superficie viene lasciata integra (cabucio) o incisa da un taglio a croce (muffulettu) oppure cosparsa di fossette impresse con le dita (scacciata). Quando la panificazione era ancora domestica, la scacciata veniva cotta velocemente sul pavimento forno dopo che era stato ripulito dalle braci per fare posto al pane. Era cotta tal quale e poi veniva tagliata a metà per essere condita con olio di oliva e sale (ma anche pepe, acciughe o sarde salate, pecorino, caciocavallo, ricotta). Oppure era condita in superficie prima della cottura dopo che erano state praticate le fossette (pani cull’occhi cavati). Gli ingredienti erano diversi e variamente combinati tra loro: olio, fettine aglio, pepe, pezzetti di acciuga o sarda salata, cipolla, formaggio pecorino grattugiato, dadini di caciocavallo, origano.
L’altra progenitrice è la tabisca saccense, una variante locale della pizza siciliana nata, come le sue consorelle, indipendentemente dell’influenza napoletana.
In Sicilia, ricordo, si contano più tipi di pizza locale. Per citarne solo alcune, la fuata nissena (pomodoro, aglio, sarde salate, pecorino grattugiato, origano, olio, sale, pepe); la rianata trapanese (pomodoro, aglio pestato o affettato, sarde salate, pecorino grattugiato, abbondante origano, prezzemolo tritato, olio, pepe); la facci di vecchia madonita (pomodoro, caciocavallo stagionato, cipolla, sarde salate, pecorino fresco, origano, pangrattato, olio, pepe nero).

Profilo tecnico della pizza siciliana e confronto con la pizza napoletana

Le concordanze tra le due specialità sono poche ma fondamentali. Come la napoletana, la pizza siciliana sviene cotta in un forno a legna portato a temperatura molto alta, tra i 450 e 500 gradi centigradi; l’impasto è spianato a mano, senza l’uso di mattarello né di altri mezzi meccanici, il diametro non supera i 35 centimetri mentre lo spessore al centro spesso supera i 4 (±1) millimetri della napoletana. In entrambe viene usato lievito di birra in modeste quantità, meno di 5 g/kg. Da qualche tempo la pizzeria Quelli di Piana Grande usa lievito madre.


Più numerose sono le differenze. Queste le principali:

Farina. La pizza napoletana è fatta con sola farina 00. Nella pizza siciliana la farina 00 è sempre mescolata con semola rimacinata di grano duro in proporzioni variabili dal 10% fino al 50 %.

Idratazione. La quantità d’acqua è inferiore nella pizza siciliana che presenta un impasto più compatto.

Tempi di lievitazione e maturazione. La lievitazione è un processo di trasformazione dell’amido durante il quale si sviluppa gas carbonico con notevole aumento del volume dell’impasto. La maturazione è il processo di modificazione della struttura del glutine con formazione della maglia glutinica attraverso numerosi microprocessi enzimatici. I tempi di maturazione sono più lunghi di quelli di lievitazione ed entrambi variano con le condizioni ambientali: temperatura e umidità dell’aria, temperatura dell’acqua, tipo di farina usato e eventuale aggiunta di zucchero e grassi.  I panetti per la pizza siciliana sono formati direttamente dall’impasto principale e posti a maturare per 4 ore. A Napoli prima viene fatto maturare l’impasto principale per 2 ore, dopo vengono fatti i panetti che vengono posti a maturare per altre 4-6 ore (doppia lievitazione).

Tempi di cottura. Per disciplinare, la pizza napoletana deve cuocere in 60-90 secondi. I tempi della siciliana tendono ad allungarsi perché è gradita una pizza croccante e più cotta.

Croccantezza. La pizza napoletana è morbida ed elastica, tanto che si può facilmente piegare in due “a libretto”, come dicono a Napoli, per essere comodamente mangiata per strada. I siciliani considerano tutto ciò un difetto. La loro pizza deve tendere alla croccantezza e per questo motivo i tempi di cottura sono più lunghi e nell’impasto viene aggiunto da alcuni pizzaioli dell’olio di semi che favorisce la croccantezza.

Cornicione. La sisiliana presenta un cornicione di dimensioni modeste, a volte appena accennato perché non è gradito. La napoletana, invece, ne ha uno vistoso. Ovviamente  è considerato un pregio.

Maculatura e puntinatura. Il cornicione della pizza siciliana si presenta uniformemente dorato ed è raro che sia cosparso “a pelle di leopardo” da macchioline marron scuro (maculatura) e da macchioline puntiformi (puntinatura).
A Napoli maculatura e puntinatura sono considerate un pregio perché indici di una perfetta cottura nel forno a legna. ,

Alveolatura. La presenza della semola rimacinata di grano duro comporta nella siciliana un’alveolatura più piccola.

In conclusione

Tutti i prodotti da forno denominati pizza sono tributari della pizza napoletana che è stata la prima a fregiarsi di questo nome ed è quella che continua a influenzare tutte le preparazioni analoghe. Lo è anche la siciliana, che tuttavia ha una sua identità precisa dovuta all’ibridazione con preesistenti. Manca, ed è auspicabile, un accordo tra i vari pizzaioli su una ricetta “ecumenica” e quindi codificata che metta d’accordo tutti conferendo un’identità ancora più forte a un prodotto già di successo.  

cucina calabrese

Marzo 30, 2020
di martinoragusa
0 commenti

La cucina della Calabria – Basso profilo e alta qualità

La cucina calabrese ha subito influenze greche, romane, arabe, albanesi, normanne e spagnole.  Ma non si deve pensare alla complessità delle cucine siciliana e napoletana che hanno subito le medesime influenze. Queste ultime sono vistose, esibizioniste, fortemente influenzate dal barocchismo spagnolo e dalla sensualità araba. Al contrario, pur presentando affinità con le confinanti, la calabrese ha mantenuto un basso profilo, limitando le somiglianze ai piatti più semplici e poveri e basandosi sugli ingredienti locali. Che sono tanti e di tutte le fasce climatiche grazie a un territorio fatto di montagne di oltre i duemila metri velocemente degradanti sul mare.
In una regione dell’estremo sud, per esempio, non verrebbe mai in mente che i funghi siano un cardine della gastronomia, invece in Calabria i funghi della Sila tengono banco. Anzitutto il Rossito (Lactarius delicius), il più tipico dei funghi silani, e poi le Spugnole, dette Trippicedde, il Boleto luteo chiamato Vavusu, le Mazze di tamburo e i Galletti.

Lo stesso discorso vale per i salumi. Qui le montagne sono rigogliosamente verdi e i boschi ricchi di querce e castagni, un habitat ideale per il suino nero di Calabria. Assieme all’allevamento allo stato brado o semibrado si è affinata la tecnica dei norcini che nel tempo hanno ideato prodotti di grande pregio e originalità

La ‘nduja di Spilinga, ormai famosa in tutta Italia, è un salume morbido nato per recuperare quello che restava della lavorazione degli altri salumi come rifilature di soppressata, pancetta, capocollo, guanciale e lardo; oggi si utilizzano tagli grassi del maiale. Il suo nome deriva probabilmente da andouille, una salsiccia francese fatta con trippa, fegato, polmoni e interiora e si pensa che sia arrivata in Calabria durante il periodo napoleonico.
Dopo essere stata insaccata, la ‘nduja viene affumicata e aromatizzata con peperoncino, aggiunto in abbondanza sia perché è molto gradito sia per le sue doti di conservante naturale. Il rapporto medio è di due parti di carne per una di peperoncino, quelle più forti arrivano alla proporzione di uno a uno. 

Nel paniere dei salumi troviamo poi le salsicce stagionate dalla classica forma a U e di colore rossastro per l’aggiunta di peperone rosso in polvere oppure di peperoncino a seconda che siano dolci o piccanti. La soppressata è fatta con carni della coscia e della spalla del maiale, rifiniture di prosciutto e pancetta, finocchietto selvatico e peperoncino.

Il Pezzente deve il suo nome al fatto che è l’ultimo salame preparato dopo la macellazione del maiale e quindi fatto con le carni avanzate e frattaglie come fegato, cuore, milza e polmone. 

Le conserve

I salumi non sono i soli cibi conservati. I frequenti assedi, assieme a una povertà atavica, hanno spinto i calabresi alla conservazione del cibo quando era disponibile per poter affrontare i periodi di carestia e di assedio. Grazie a un’esperienza maturata in secoli di aggiustamento della tecnica, oggi in Calabria si trovano sott’oli tra i migliori d’Italia: funghi, pomodori secchi, melanzane, peperoncini ripieni, lampascioni.
E poi c’è la Rosa Marina, detta anche Caviale di Crucoli, Sardella di Crucoli, Caviale dei poveri, Mustica, Unnata. Tanti nomi che testimoniano la grande considerazione in cui si tiene questo prodotto ottenuto da sarde dello Ionio neonate, fermentate con sale e condite con finocchio selvatico e molto, molto peperoncino. Per evitare sorprese in bocca è consigliabile un approccio prudente. Magari cominciando ad assaggiarla come condimento di un piatto di spaghetti e poi marciare verso la conquista della rosa marina in purezza spalmata su una fetta di pane. Oltre che a Crucoli, si produce a Trebisacce, Schiavonea, Rossano, Cariati, Mirti, Amantea, Catanzaro e Crotone.

I Formaggi della Sila

Fin dai tempi della Magna Grecia l’Altopiano della Sila è il regno indiscusso di pastori e bovari. I tipi di formaggi sono tanti, sia di latte pecorino che vaccino. Imperdibile è la sciungata, un formaggio fresco, di latte vaccino e a pasta filata lavorata per lungo tempo. Dopo la lavorazione le forme ovali vengono strette dentro a steli di giunco e legate alle estremità.  Il sapore è aromatico e leggermente acidulo.

Poi c’è il butirro, un formaggio sempre a pasta filata a base di latte di mucca, crema di latte e crema di siero con all’interno una sfera di burro. È prodotto in tutta la regione ma si dice che il migliore sia il silano perché è fatto con latte di vacche annicchiariche, così sono chiamate quelle che hanno partorito da un anno.
Infine, il caciocavallo silano. Ottenuto da latte crudo vaccino e a pasta filata, è uno dei formaggi più diffusi di tutto il meridione d’Italia. La sua area di produzione sconfina dalla Calabria e si estende a macchia di leopardo in Puglia, Basilicata, Campagna e Molise. L’appellativo geografico rende omaggio allo storico lavoro dei bovari calabresi che nell’altopiano della Sila lo preparavano nei loro rifugi in legno, i “vaccarizzi”. Ma è anche opinione comune che sia il migliore.

la “Farci-provola”, un formaggio di latte di mucca farcito all’interno con soppressata o capocollo stagionato, e gli “Animaletti di Provola”, un formaggio di latte vaccino lavorato a forma di cavallo sono prodotti nell’istmo di Marcellinara. Lungo appena 30 chilometri è il punto più stretto della Calabria ed è dominato dal monte Tiriolo dal quale si gode lo scenario dello Ionio e del Tirreno separati da uno stretto lembo di terra.

Peperoncino, cipolla e cedri

Il peperoncino è talmente penetrato nella gastronomia di questa terra che molti lo considerano “autoctono” calabrese. Invece fa parte della schiera dei nuovi cibi importati dalle Americhe dagli spagnoli, solo che qui ha messo radici, sia in senso reale che metaforico. Il Capscicum Annuum ha trovato in Calabria un clima perfetto per la sua coltivazione e un’accoglienza entusiasta dovuta, come spesso succede, anche a motivi economici. Era la meno costosa delle spezie esotiche e l’ideale per arricchire di sapore e colore i piatti poveri di una cucina contadina a base di verdure e legumi. Inoltre, grazie alle sue proprietà conservanti e coloranti è stato adottato con entusiasmo dai norcini calabresi che l’hanno fatto diventare l’ingrediente distintivo dei loro salumi.

A questi buoni motivi vecchi ormai di cinque secoli, si sono aggiunte negli ultimi decenni le raccomandazioni dei nutrizionisti che lo consigliano sempre più come il “pepe che non fa male”. Anzi fa bene perché ha proprietà antiossidanti ed è capace di abbassare i livelli di colesterolo nel sangue. Le varietà di peperoncino coltivate in Calabria sono tutte della famiglia del capsicum annum. Sono il capsicum abbreviatum, l’acuminatum, il fasciculatum, il cerasiferum, il bicolor e il christmas candle.

Onnipresente in tavola, quasi come il peperoncino, è la Cipolla rossa di Tropea. I calabresi fanno proprio bene ad abusarne. Particolarmente dolce per l’alto contenuto in glucosio, fruttosio e saccarosio, la Tropea si piazza ai massimi livelli di pregio tra le circa 50 varietà di cipolla esistenti. Fu importata dai fenici ed è coltivata da oltre 2000 anni nei territori di Tropea, Ricadi e Capo Vaticano dove ha trovato il microclima ideale senza troppi sbalzi di temperatura, e i terreni freschi e limosi di cui necessita.

Si può trovare in 4 diversi aspetti:

1. Cipollotti. Di colore bianco-rosato, sono venduti in primavera a mazzi con il ciuffo verde  lungo circa 40 centimetri. Sono indicati per la preparazione di insalate e per il pinzimonio

2. Cipolle fresche: hanno colore bianco-violaceo e una coda di circa 60 centimetri. I bulbi hanno un diametro di 4-10 centimetri. Si gustano crude in insalata.

3. Cipolle da serbo: sono di colore rosso violaceo, senza coda e si trovano tutto l’anno. I bulbi sono deumidificati per circa sette giorni. Vanno usate in tutte le preparazioni che richiedono una cipolla rossa dolce e non pungente. Può essere anche intrecciata.

Il lembo della costa cosentina che va da Praia a Paola è la Riviera dei Cedri, zona di intensa coltivazione di questo agrume. “Frutto puro” per la religione ebraica e protagonista dei banchetti religiosi, in agosto il cedro richiama a Diamante rabbini da tutta Italia che vengono a seguire personalmente il raccolto per controllare che sia conforme alle regole della kasherut. Per i non ebrei, serve alla preparazione di sciroppi, liquori, canditi e gelati che potete trovare in tutta la Riviera. Soprattutto a Cetraro, che dal cedro prende il nome, e a Diamante.

La tavola

Per l’antipasto c’è solo l’imbarazzo della scelta tra salumi e formaggi e conserve.  Si accompagnano magnificamente con la pitta, la focaccia fatta con pasta di pane e ritenuta l’antenata della pizza. Le conserve sono l’ideale per condire le amatissime bruschette di pane casareccio.

Passando ai primi, si può cominciare con qualcosa di semplice come la Pasta muddica  e alici, gli spaghetti o i maccheroni di casa sono conditi con acciughe salate sciolte nell’olio e pangrattato abbrustolito.  Oppure con un piatto di Rascatelli, una semplice salsa di pomodoro condisce cavatelli di diversa lunghezza a seconda del numero di dita usate per cavare la pasta. Ci sono Rascatelli a due, a tre a quattro dita, fino a otto. La Pasta e patate alla tiedda è una pasta al forno con patate, salsa di pomodoro, parmigiano grattugiato, alio e origano.

Passando a preparazioni più sostanziose troviamo la Pasta al forno (Pasta ‘ncasciàta nel reggino per l’influenza siciliana) con sugo di carne di maiale, salumi, polpettine, rondelle di uova sode, provola silana e/o scamorza. In estate vengono aggiunti strati di melanzane fritte.

Le Sagne sono una pasta di sola semola di grano duro e acqua, tirata a sfoglia non troppo sottile e poi tagliata come le classiche lasagne. Si preparano come la pasta al forno.

Le Lagane sono corte pappardelle di grano duro e acqua, anche queste senza uova nell’impasto. Si condiscono con una minestra ristretta di ceci (Lagane e ceci) o di fagioli.

Tra i piatti in brodo, il Brodu chinu è una stracciatella fatta con uova sbattute assieme a pecorino grattugiato, pangrattato e prezzemolo. Hanno un bellissimo nome le “millecosedde”, una minestra povera che utilizza piccole quantità di legumi insufficienti a preparare una zuppa se presi singolarmente e le rimanenze di pasta. La Licurda è una zuppa del cosentino a base di cipolle di Tropea;  il macco, una purea di fave con spaghetti spezzati, si serve con pepe nero e un giro di olio extravergine di oliva.

E arriviamo ai secondi. Il più tipico è il soffritto o frissurata, un umido fatto con pancetta, cotenna, parti di testa di maiale disossate, musetto e altre parti callose cotte con il vino rosso. Il tutto è aromatizzato con alloro e abbondante peperoncino. Allo stesso modo viene preparato il soffritto di agnello e di capretto. Il Morzeddhu catanzarese, invece, utilizza interiora bovine.
Altrettanto impegnativo è il Capocollo fritto nella ‘Nduja assieme alla cipolla di Tropea. Più leggeri sono i piatti a base di agnello e capretto, cotti al forno, in umido e alla brace.

Tra i pesci, pur con tanto mare a disposizione, trionfa lo stoccafisso del Nord Europa orma naturalizzato da secoli con il nome di “Stocco”. Quello alla mammolese è cotto in umido con  con salsa di pomodoro, cipolle, patate, olive in salamoia e peperoncino. Si prepara anche con i funghi, con i fagioli, al forno, arrostito sulla brace e perfino crudo, marinato nel limone, con sale e prezzemolo.

Non manca però il pesce fresco specialmente il pesce azzurro e soprattutto lo Spada nel reggino dove viene arrostito e bagnato con salmoriglio, una semplice salsa fatta con olio, limone sale, pepe e prezzemolo o origano; oppure alla ghiotta, in umido con pomodoro e olive.

Molto interessante e dietetica la preparazione dello Stocco alla bagnarota, cotto a bagnomaria con olio, limone, origano e capperi.

Numeroso è l’elenco dei dolci tradizionali quasi tutti votivi e quindi preparati per le feste religiose. Tra i tanti segnaliamo gli ‘Nzuddi o Mostacciuoli, celebrativi di eventi speciali come fidanzamenti e matrimoni oltre che devozionali e immancabili nelle feste patronali. Sono biscotti non lievitati fatti con farina e miele, tipici delle feste patronali hanno svariate forme, a cesto,  cuore, bambola, pesce, cavallo e altri ammali. Quando sono usati come ex voto prendono la forma di questi.

La Pitta ‘mpigliata o Pitta ‘nchiusa di San Giovanni in Fiore è un rotolo di pasta farcito e tagliato “a girella” ripieno di uva passa, gherigli di noce, pinoli, mandorle, cosparsa di miele o irrorata con liquore.

La Giurgiulèna è un torrone che si fa a Natale con sesamo e miele. Natalizi sono anche i Turdilli, gnocchetti di pasta fatta con farina e vino, fritti e cosparsi di miele.

La Varchiglia alla monacale, tipica di Cosenza si deve alle Carmelitane scalze: un guscio di pasta frolla a forma di barchetta contiene un morbido ripieno di mandorle, zucchero e cioccolato.