di Gianluigi Storto
Partiamo da qui, se non altro per rispetto del Prof. Wrangham e della sua tesi. La carne cruda e “fresca”, ovvero di un animale ucciso da poco, è sempre stata un ingrediente dell’alimentazione delle scimmie arboricole nostre progenitrici, che l’alternavano con frutti, bacche e foglie. Si trattava perlopiù di piccoli animali, uccelli, pipistrelli, qualche lucertola e anche qualche “collega” della stessa specie. Capita ancora nelle popolazioni di scimmie arboricole delle foreste africane e sudamericane.
L’effetto della temperatura sulle carni è drammatico, come sa chiunque abbia provato a fare un barbecue senza averne esperienza! In poco tempo di passa da una bistecca cruda e immangiabile a una croccante e saporita carne alla brace, ma appena dopo, in un lampo, a un pezzo di carbone nero e fumante che scricchiola sotto i denti e sa di fumo… innanzitutto meglio non mettere la carne sul fuoco vivo ma sulle braci, meglio ancora, come appunto nei barbecue che sono stati inventati apposta, a una certa distanza da esse. In questo modo la carne viene sottoposta a un irraggiamento di calore più regolare e meno intenso. Da un punto di vista tecnico in questo modo il calore arriva alla carne sotto due forme: diretta come raggi infrarossi e indiretta come aria più i gas di combustione della carbonella ovvero anidride carbonica, ossido di carbonio e vapor d’acqua. Tutti belli roventi.
La carne, come sanno tutti, è fatta da vari componenti: ci sono i grassi, c’è l’acqua, ci sono le proteine, le vitamine, le fibre nervose, i tendini, i vasi sanguigni, eccetera. Per non parlare delle interiora. E ognuna di questi “componenti” reagisce in maniera diversa al calore violento delle braci.
Che succede ai grassi durante la cottura alla brace?
I primi a risentire del calore sono i grassi, perché letteralmente, si sciolgono. I grassi infatti passano da solidi a liquidi a temperature abbastanza basse (considerate il burro, per esempio, ma anche il lardo). E così fuoriescono dalla carne facendosi strada fra le fibre proteiche che, nel frattempo, subiscono anche loro delle serie modificazioni strutturali. Spesso i grassi gocciolano letteralmente fuori della carne, vanno sui carboni ardenti del barbecue e… prendono fuoco, essendo combustibili. Ma può capitare che restino nella carne ma superino la temperatura che i chimici chiamano “punto di fumo”. A quella temperatura avvengono reazioni chimiche che modificano la struttura chimica del grasso e si formano sostanze gassose che, unite a goccioline di grasso e a un po’ di vapor d’acqua (onnipresente), dà origine appunto al fumo (è vero che non c’è fumo senza arrosto ma è vero anche che… non c’è arrosto senza fumo!).
Troppo fumo non è un buon segnale e a quel punto un buon chimico, pardon… un buon cuoco, dovrebbe abbassare un po’ la temperatura, allontanando la carne dalle braci. Perché fra le sostanze che si formano per decomposizione dei grassi ad alta temperatura, c’è l’acroleina, una molecola puzzolente e cancerogena, che è meglio evitare perché oltre che andarsene in cielo può restare impregnata nell’alimento che cuoce (un chimico direbbe “che si sta decomponendo”) e potrebbe innescare reazioni biologiche pericolose (l’acroleina è cancerogena). Inoltre a temperature eccessive le sostanze organiche delle carne carbonizzano, dando origine a composti solidi anch’essi cancerogeni (le famigerate croste nere degli arrosti alla brace) che andrebbero assolutamente evitati o almeno ridotti al minimo. Ecco perché i bravi “barbecueisti” cuociono a bassa temperatura, evitando non solo le fiammate da grassi sgocciolanti ma anche fumi eccessivi. Inoltre, una eccessiva perdita di grassi rende la carne più dura da masticare e ovviamente meno appetitosa… è la differenza fra un hamburger morbido e saporito ed uno rinsecchito e duro come una suola di scarpa!
Prossimamente: le proteine sulla brace