Mi avvicino al bancone del bar di un aeroporto siciliano per prendere un caffè e rimango impietrito davanti a un grande santino di Simone Rugiati, lo stesso che vedete in cima a questo articolo. Oltre al tele-chef e al logo della Coca Cola, ci sono raffigurati tre ricettari dello stesso Simone. Devo averli! Almeno uno, ma non sono in vendita. Per metterci le mani sopra devo spararmi un menu My Chef con la pancia piena o comprare due bottiglie di Coca Cola da 50 cl ciascuna. Non sia mai che qualcuno dei miei spicci finisca nelle casse del signor Coca Cola! Inizio a passeggiare nervosamente davanti all’oggetto del desiderio come faccio sempre quando mi imbarco in un acquisto tormentato quando mi accorgo che la cassiera mi sta osservando con la faccia seria. Mi vergogno e decido di reagire. “Scusi, devo comprare due bottiglie di Coca Cola per avere il ricettario?”. “Aspetti”, mi dice, e sparisce sotto la cassa per riemergere due secondi dopo con in mano un opuscolo che mi porge con un sorrisetto complice.
“Grazie mille!” e missione compiuta! Dentro c’è Simone Rugiati in tutte le pagine con una bottiglietta in mano e otto ricette, sette senza infamia e senza lode e una, l’ossobuco con riso al salto, con una bottiglietta di Coca Cola dentro. Mi chiedo perché un ingrediente così inusuale e rilevante non sia citato nel titolo della ricetta. Un improvviso attacco di pudore? In ogni pagina, accanto a ciascuna ricetta, compare la frase “Non resta che aggiungere un rinfrescante bicchiere di Coca Cola, scegli tu quella che fa per te”. Insomma, la strana coppia ci sta riprovando.
Da tempo la Coca Cola cerca di imporsi in Italia come bibita “a tutto pasto”, stile Usa. Nel 2012 Simone Rugiati fu chiamato a testimoniare quanto bene si abbinasse ai piatti della cucina tradizionale italiana. In uno degli spot delle “Ceniamo insieme con Coca Cola”, si vedeva una famigliona allegramente seduta attorno a una grande tavola colma di ogni italico bendidio da innaffiare con tanta Coca Cola. In sito ilfattoalimentare.it (sia sempre benedetto) protestò e il Garante per la Pubblicità censurò lo spot perché proponeva “modelli di consumo e stili di vita non improntati alla massima correttezza, in termini di educazione alimentare”. Dopo due anni siamo punto e a capo. Il mezzo di divulgazione è un altro ma il messaggio è sempre quello. Cari amici del Fatto Alimentare, a chi bisogna rivolgersi questa volta?
E voi, cosa ne pensate?