Sono stato in una vecchia trattoria ia-ia-ò. Di quelle dove ti portano la cofana di pastasciutta e poi la fiamminga con le costolette e la salsiccia. Invece, a sorpresa, è arrivata la proposta di un menu tematico dedicato al carciofo.
In corso d’opera il pasto si è rivelato molto somigliante al menu degustazione di un ristorante di rango, con porzioni ridotte, moltiplicazione di portate, sconvolgimento del pranzo all’italiana con primo, secondo e dolce. Il tutto con misura, senza stravaganze e senza liquirizia come se piovesse. Alla fine, il conto come per un pranzo tradizionale con maccheroni, grigliata, tiramisù, caffè e ammazzacaffè.
Una vera rivoluzione, considerato il tipo di locale. Che però si è mantenuta dentro i confini del piatto. Mentre in tavola il turbantino di carciofo si succedeva alla crudità tenerissima con carciofo e zenzero, tutto il resto rimaneva fedele al concept originale: arredo più che modesto con tanto di finta boiserie, illuminazione sbagliata, servizio familiare, mise en place rustica con l’eccezione dei calici per il vino al posto dei bicchieri da osteria di ordinanza.
Alla fine, le creazioni del giovane cuoco – un venticinquenne da poco succeduto alla madre nel governo della cucina- sembravano litigare con tutto l’ambiente ma senza che nessuno si facesse male, come i termini di un ossimoro audace e ben riuscito.
Mi sono immediatamente chiesto che razza di cucina fosse quella del neo-chef e la prima cosa che mi è venuta in mente è si trattava del prototipo di una nuova cucina popolare.
Benché puntassero molto in su, quei buoni piatti si fermavano non un gradino ma una rampa sotto il piano dell’alta cucina. D’altra parte, però, si piazzavano un paio di rampe sopra la cucina delle trattorie e di tanti ristoranti di fascia media. Erano piatti non straordinariamente nuovi ma neppure scontati. Piatti non “piatti” verrebbe da dire, perché contenitori tridimensionali di una storia e di un progetto, leggibili lungo più livelli e raccontabili con tanto di ragionamenti e chiose.
In quei piatti ho letto un po’ di ricordi: lezioni alla scuola alberghiera, qualche pagina della “Cucina Italiana”, un paio di puntate della “Prova del Cuoco”, qualche visita attentissima al ristorante di qualche celebrity chef. Naturalmente non mancavano i ricordi della cucina di casa, ma quelli erano ben nascosti alla base, a funzionare da fondamenta.
Piatti che non erano un miracolo di creatività eppure ragionati e consapevoli, non passivamente appresi e automaticamente riproposti.
Per carità, nessuna sperimentazione paragonabile a quella che si celebra nei retrobottega dei ristoranti pluristellati. Come avrebbe potuto esserlo a quel prezzo e con chissà quale brigata in azione, ammesso che ce ne fosse una? Non alta cucina, ma certamente alto bricolage.
Quel giovane cuoco mi ha fatto venire in mente la teoria del bricoleur di Claude Lévi- Strauss, che lavora sull’esistente e sul già fatto per riproporlo diverso e migliorato in un’ottica squisitamente evoluzionista, spinto da una forte volontà̀ di sperimentazione e reinvenzione.
Sospetto anche che in lui ci fosse il desiderio di presentarsi senza fastidiosi sensi di inferiorità al giudizio del nuovo modello di cliente ora in circolazione, smaliziato dalle innumerevoli trasmissioni tv sul food e incattivito dalla lettura di troppe recensioni su tripadvisor.
Sappiamo bene quanto i cuochi oggi lavorano sotto l’assedio di agguerriti recensori fai-da-te e accaniti consumatori di puntate di master chef e hell’s kitchen, vere palestre di spocchia e maleducazione. In conclusione, in quel campo di battaglia che è oggi diventato il ristorante, il giovane cuoco della trattoria mi è sembrato proporre un efficace modello di resistenza. Fatto di studio, informazione, coraggio, modestia, sperimentazione privata, voglia di essere al passo con i tempi, consapevolezza dei propri limiti e uso giudizioso delle proprie risorse.
Per i colleghi un esempio, per il cliente un dono.