Tutte le volte che partite per una vacanza all’estero non dimenticate di infilare dentro al vostro bagaglio psicologico anche l’atteggiamento da tenere con la gastronomia locale. Il mio consiglio è di comportarvi con i cibi che gusterete come se fossero flirt da viaggio, cioè godetevi al massimo la cosa finché siete lì e dimenticatela tornando a casa.
Purtroppo questa regola del gusta-e-fuggi è sempre rispettata per l’amorazzo, ma non lo è quasi mai per i cibi. È difficile che qualcuno torni con una fidanzata maori o un boy friend tibetano, tutti invece rimpatriano con le valigie piene di spezie, camembert puzzolenti e scatole di caviale: un fardello asfissiante che blocca le file alla dogana, ubriaca i cani antidroga e massacra il guardaroba tutte le volte che si rompe un vasetto. Ma il grave è che poi quella roba bisogna usarla e voi non ne siete assolutamente capaci. La fusione delle gastronomie è un processo lento e delicato come la fusione nucleare e se è fatto male dà luogo a quegli ibridi mostruosi che di solito costituiscono la beffa dell’ospite che ha già subito il danno dell’invito a vedere le diapositive.
Se volete internazionalizzare la vostra cucina dovete abbandonare la strada veloce delle linee aeree e prendere quella lentissima degli scambi umani. Frequentate con assiduità amici immigrati e fatevi insegnare a poco a poco i principi della loro cucina lasciandovi sgridare quando fate pasticci. Per esempio, un russo mangia il caviale sempre freddissimo e a ranghi compatti sui blinis. Non lo contaminerebbe mai con la cucina mediterranea, versandolo in ordine sparso sulla pasta calda. E poi, cosa pensereste dei bucatini all’amatriciana cucinati da un texano che è stato una settimana in Italia? Anche se si è portato dietro tutto, pomodori compresi, una volta a casa non resisterà alla tentazione di scuocerli, di metterci un po’ di ketchup e di servirli come contorno.