Martino Ragusa, il Blog

Ricette di cucina, cultura gastronomica e divagazioni

I nomi dei piatti: meglio brevi o descrittivi?

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Le parole pesano, si sa. Tutte, comprese quelle che leggiamo su un menu. Ma pesa di più il titolo Spaghetti riserva Senatore Cappelli in crema all’uovo con brunoise di guanciale croccante, pecorino romano dop e pepe nero di mulinello” o un semplice “Spaghetti alla Carbonara”?
È meglio un titolo  leggero con la denominazione tradizionale dei piatti – generalmente di poche parole – o un titolo pesante con descrizioni lunghe a volte fino all’estenuazione. Mentre in Italia si avvia il dibattito, negli Stati Uniti si è conclusa una ricerca proprio su questo dilemma condotta con rigoroso metodo scientifico.

Brian Wansink, Professore di Marketing ed Economia dei Consumi all’Università dell’Illinois, ha guidato un’equipe di ricercatori in un esperimento della durata di sei settimane condotto su 140 clienti di ristoranti.
Questi i quesiti della ricerca:

Rispetto ai menu tradizionali, i menu descrittivi incrementano le vendite di un piatto?
Inducono il cliente a ritenere che il cibo sia di qualità migliore?
Inducono il cliente a giudicare il ristorante di miglior qualità?
Inducono il cliente a chiedere lo stesso piatto una seconda volta entro le due settimane?
Inducono il cliente a pagare di più per lo stesso piatto?

I menu descrittivi erano divisi in tre categorie. C’era un menu geografico che evocava i paesi di provenienza dei piatti (da noi si parlerebbe di territorio), un menu nostalgico che richiamava l’ambiente familiare (tipo ‘le buone cose della nonna’) e il sensoriale con aggettivi invitanti come ‘tenero’ ‘croccante’, ecc. Ovviamente bisogna ricordare che la ricerca è stata condotta in Illinois, dove la cucina è ben più spartana di quella che si trova nei ristoranti di New York, ancora di più se paragonata all’europea e all’italiana in particolare. Perciò le denominazioni che riporto di seguito, e che sono quelle usate dai ricercatori, possono risultare ingenue rispetto ai labirinti verbali che ormai siamo abituati a leggere sui menu nostrani. Tuttavia, operati i dovuti distinguo, i risultati possono risultare utili anche delle nostre parti.

Tornando in Illinois, nel menu sensoriale il Pollo alla griglia è stato cambiato in Pollo tenero alla griglia. In quello geografico il Riso e Fagioli rossi è diventato Riso con Fagioli rossi tradizionali del Cajun, mentre sul menu nostalgico la Torta di mirtilli è stata ribattezzata Torta di mirtilli della nonna.
Non c’è che dire, noi italiani con le parole avremmo fatto di meglio e soprattutto di più. Comunque, i risultati mostrano lo stesso differenze apprezzabili e appaiono interessanti.
Il più concreto di tutti è che i piatti dei menu descrittivi sono stati venduti il 27% in più rispetto agli omologhi del menu tradizionale: è dimostrato che la gente mangia con le orecchie oltre che con la bocca. Quanto ai giudizi di apprezzamento, sono stati misurati con una scala da 1 a 9. Ecco i risultati.

I menu descrittivi  hanno ottenuto

7,1 punti sulla qualità punti dei cibi contro i 6,3 punti degli stessi cibi sui menu tradizionali.

E’ stato dato un giudizio migliore al ristorante (6,5% contro il 5,7%).

E’ aumentata l’intenzione di scegliere ancora quel piatto entro le due settimane successive (7,1% contro 5,9%).

Inattaccabile, invece, è rimasto il portafoglio. I soggetti in esame si sono dichiarati non disponibili a pagare una cifra più alta per i piatti del menu descrittivo anche se venivano scelti di più e trovati migliori.
Non sappiamo quanto questi risultati siano applicabili all’Italia, ma sono sufficienti a stimolare più di una riflessione. Di fatto i menu descrittivi sono diventati strumento indispensabile nella  ‘Nuova Cucina Italiana’, specie per quanto attiene alla sempre più frequente proposta di piatti tradizionali sottoposti a ‘destrutturazione’ e ‘ricomposizione’. I vantaggi sono quelli della descrizione, con un cliente puntigliosamente informato di ciò che mangerà.
Ma non mancano gli svantaggi, a cominciare dall’impossibilità di memorizzare una denominazione così lunga. Con due conseguenze: l’impossibilità di chiedere una seconda volta quello stesso piatto e la difficoltà di accesso di quella preparazione nel repertorio di una cultura gastronomica. La cucina diventa qualcosa di effimero, di legato all’esperienza di una sola volta e non può più essere più riproposta da altri nè storicizzata. E questo mi sembra un danno gravissimo.Pesante anche la cancellazione proditoria delle denominazioni tradizionali che tanto hanno dato da mangiare agli italiani, in tutti i sensi. Tremo all’idea che i tortellini in brodo possano diventare Piccoli fagottini di sfoglia gialla sottile ripieni alla moda della bassa emiliana in brodo di manzo e gallina, serviti con parmigiano reggiano delle vacche rosse. E c’è anche il pericolo di farsi prendere la mano con la scivolate macabre che rischiano di chiudere l’appetito anzichè aprirlo. Come lo Chateaubriand di tonno rosso al timo cotto per impiccagione, melanzana infornata con pomodoro e capperi di Luigi Pomata del Ristorante ‘Da Nicolò’ a Carloforte. La soluzione di buon senso sembra quella di lasciare in pace le denominazioni tradizionali e creare per i nuovi piatti, magari accompagnati da un sottotitolo che a quel punto può essere lungo quanto si vuole. Per esempio Davide Scabin, chef d’avanguardia del Ristorante Combal. Zero di Rivoli propone la Zuppizza, una pizza destrutturata in una fetta di pane croccante, crema di formaggio e pomodoro candito.

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