Sono solo trent’anni la Sicilia ha imparato a produrre vini di qualità. Trenta esatti perché tutto è iniziato nel 1984 con la prima bottiglia di Duca Enrico. Prima d’allora il nero d’avola era un mediocre vino di alta gradazione utile solo per dare nerbo al bisogno ai vini pregiati degli altri, specialmente ai francesi. Stessa sorte per i bianchi.
Fu il grande enologo Giorgio Tachis a dimostrare quali miracoli si potevano fare con le uve siciliane se solo venivano coltivate e vinificate con moderne linee guida, non più con le modalità consuete, spacciate per tradizione, ma che erano in realtà la ripetizione automatica di errori capaci solo di ottenere grandi quantità e qualità pessima.
È a Tachis che si deve quel “Brand Sicilia” oggi conosciuto e apprezzato in tutto il mondo, statys symbol di una cantina newyorkese come di una moscovita. A conti fatti, i siciliani devono essere più grati a lui che Garibaldi.
Ma se la Sicilia ha imparato produrre ottimi vini, è però rimasta indietro nella produzione di buoni bevitori. Sembrerà strano in mezzo a un mare di vino, ma qui la cultura del buon bere è una novità dell’altro ieri. Per secoli il vino è stato prodotto in abbondanza e guardato con altrettanta diffidenza, retaggio dell’intensa dominazione islamica che non ha lasciato ai posteri solo il Castello della Zisa, ma pregiudizi e divieti altrettanto monumentali.
Ancora oggi il vino non viene servito nei normali bar né viene mai richiesto fuori dal contesto di un aperitivo o di un pasto. Le “ombre” dei bar veneti sono a una distanza lunare. E non c’è la tradizione delle osterie, dove anche le “persone per bene” entravano per mangiare e bere, ma quella delle taverne, cioè ghetti per i pochi alcolisti siculi. Non va dimenticato che ncora oggi la Sicilia è l’ultima tra le regioni italiane per alcolismo. È anche la prima per diabete a causa della venerazione per la pasticceria, altro retaggio arabo, ma questo è un altro discorso.
Di fatto, il siciliano non si avvicina al vino passivamente, perché lo bevono tutti da secoli. Qui, chi sceglie di bere vino lo fa con modalità attiva, perché si è incuriosito sulla spinta della moda, o perché ha frequentato un corso. Nelle città siciliane, gli estimatori del calice sono ancora pochi ed esigenti proprio perché sono degustatori “attivi”, che si sono guadagnati la loro passione, sono informati, hanno studiato, sono in grado di comparazioni competenti. Non è un caso che qui gli happy hour, gli aperitivi rinforzati e gli apericena, in fondo, non abbiano poi attecchito più di un tanto. Nei wine bar e nelle enoteche il vino di norma viene servito con frugali appetizer oppure con un pasto completo. Insomma mantiene la sua centralità e si offre a un degustatore concentrato e non distratto da troppa roba da mangiare.