La presentazione (o impiattamento, per dirla con un orrido neologismo) è un tratto distintivo della cucina italiana contemporanea e ormai assorbe gran parte del lavoro del cuoco. Il piatto è diventato un “supporto” come la tela per il pittore. La pietanza, di conseguenza, una pittura. Anzi una scultura, perché oltre che all’accostamento dei colori, lo chef – artista deve pensare alla tridimensionalità e mettere in opportuno contrasto oggetti commestibili (ma spesso anche no) verticali, con altri orizzontali e quelli dritti con quelli di sbieco. Inoltre, i volumi pizzuti dovranno contrastare con quelli tondeggianti, le sostanze solide come i tocchi di ciccia con quelle cremose, semiliquide e addirittura aeree come per esempio le schiume. E poi ci sono “i letti” di insalatine varie e qualcosa di spalmato “a specchio” sul fondo del piatto su cui erigere il complesso architettonico di maccheroni, pesci e carni oltre agli svolazzi vari di cialde, nuvole e schiume che ricordano acque inquinate se non di peggio.
Chi avesse avuto l’opportunità di sbirciare dentro una cucina professionale al momento del pasto, avrà visto che tutte le superfici orizzontali sono fittamente popolate di piatti sui quali stanno chini i soldatini della brigata di cucina per costruire il loro Lego commestibile.
“La pasticceria è una branca dell’architettura” diceva Antonin Carême. E aveva ragione. Ma la cucina no, anche se ormai lo è diventata. Di fronte a queste composizioni, l’occhio gode e la conversazione si arricchisce di colte recensioni artistiche. Il mio pensiero, però, corre a tutte le manipolazioni che quel piatto ha dovuto subire per poter essere montato a dovere. Al fatto che è stato, cotto, smanazzato, lasciato raffreddare e riscaldato. E l’appetito se ne va…
Ogni tanto fantastico di un cameriere che mi scodelli nel piatto una cucchiaiata di risotto caldo-n0n-riscaldato. Sono, per questo, un passatista?