Con tanti aggettivi che avrei a disposizione, il primo che mi viene in mente per definire la cucina siciliana è funambolica. È così che la vedo: in bilico tra passato e futuro, opulenza e povertà, aristocrazia e popolo, tradizione e innovazione. Funambolica, in movimento e perciò attuale, adatta al gusto e alla dietetica contemporanea.
È vero che la gastronomia dell’isola deriva da un imponente passato che continua a essere il principio di tutto, ma è anche vero che tutto questo prezioso retaggio non è diventato un peso. Sappiamo come funziona: da solide radici si attingono insegnamenti, identità, sicurezza e credibilità. Ma se a un certo punto entra in gioco una variabile imprevista, come un mutato stile di vita, quel bel passatone si può trasformare in una zavorra capace di fare affondare la barca. Basta guardare a cos’è successo alla cucina francese, che ha perso il suo primato di migliore cucina del mondo proprio a causa del suo glorioso passato, pieno di preparazioni raffinate a loro volta stracolme di grassi animali e salse burrose capaci ormai di ricordare solo calorie in eccesso e accidenti cardiovascolari.
Lo stesso stile di vita che ha sferrato la solenne batosta alla cucina francese bollandola come grassa e antica, è stata la fortuna della cucina italiana e ancor più della siciliana, ormai indicata a modello di corretta alimentazione mediterranea.
La Sicilia si trova al centro di quel Mediterraneo a cui tutto il mondo ormai guarda come fonte di cibi e di saperi capaci di regalare al tempo steso salute, tradizione e gusto. Chi l’avrebbe mai detto che grandi chef di tutto il mondo si sarebbero impegnati a studiare, interpretare e riprodurre una poverissima pasta con l’olio, pomodori e basilico? Che ci avrebbero invidiato le sarde fresche che sono ancora vendute a due euro al chilo al mercato palermitano di Ballarò?
Tornassero al mondo i miei nonni, che potevano permettersi di mangiare la carne non più di tre volte l’anno, penserebbero di essere capitati in un manicomio. Ma si prenderebbero una bella soddisfazione.
Non penso di essere sciovinista se mi permetto di ricordare come il clima straordinario della Sicilia faccia crescere gli ortaggi più gustosi del mondo. Qui gli ulivi danno oli profumati, le uve vini preziosi e le erbe aromatiche hanno fragranze più intense. Ed è anche un luogo dove la gente è rimasta legata ai sapori naturali del mare e della terra, dove non si sono consumati quei tradimenti di stile alimentare che sono ormai consueti in tante altre parti d’Italia. In Sicilia, la memoria dell’antica cucina materna è ancora viva e le nuove mamme non hanno ancora disperso quei saperi. Grazie a loro si può contare su un fronte di resistenza armato di mestoli che riesce ancora respingere gli attacchi di un marketing aggressivo che spinge all’omologazione del gusto. Con qualche vittima, questo è inteso, ma con un bollettino di guerra tutto sommato soddisfacente. Per esempio, in tutta l’isola si conta circa la metà dei ristoranti Mc Donald’s presenti nella sola Milano. Insomma, se è vero che anche qui i bambini frignano per l’hamburger globalizzato, è anche vero che i genitori li distraggono facilmente con un’arancina.
Onnipresenza del sacro e del simbolico
Che la Sicilia sia una terra a tinte forti, è risaputo. Così come si sa che i tutti siciliani sono intimamente teatrali.
A qualsiasi ceto, censo o livello culturale appartengano, non possono fare a meno di rappresentare la loro sicilitudine come in una tragedia o in una commedia a seconda del momento. In ogni caso, si tratta sempre di rappresentazioni recitate solo da prime donne e primi attori, perché qui non esistono comprimari né comparse. In questo, non c’è che dire, la teatralità siciliana è erede legittima del teatro greco, dove anche il coro è protagonista, pari fra pari.
Con questa premessa, è facile capire come il siciliano corra sempre il rischio di inciampare nella retorica. Non solo quando fa discorsi di alto profilo, ma anche quando tocca argomenti lievi. In un luogo dove tutto è rappresentato più che presentato, ogni parola o gesto ha un significato nascosto e più profondo di quello che riesce a cogliere l’osservatore forestiero. Tutto è linguaggio e tutto è capace di rimandare a qualcos’altro di diverso e più blasonato da sé. Il senso del sacro è radicato in tutti – laici e mangiapreti compresi – e si infiltra ovunque con la missione di liberare il quotidiano dalla dimensione prosaica e dalla banalità.
Quando faceva il pane, mia nonna non eseguiva solo un’ordinaria azione di cucina. Per cominciare, imprimeva con il palmo della mano posto a taglio un segno di croce sulla cima della vetta del monticello di farina, solo dopo scavava il cratere dove avrebbe versato l’acqua e posto il lievito. Poi, al momento della cottura, accompagnava l’ingresso nel forno di ciascun pane con un motto, una benedizione, una breve invocazione in versi:
Lu pani ‘ntra lu furnu
La grazia ppì’ lu munnu
Il pane nel forno
La grazia per il mondo
Pani lèvitu e furnu forti
Pane lievitato e forno forte
Santa Zita, d’oru la crusta e bianca la muddica
Santa Zita, d’oro la crosta e bianca la mollica
Sant’Agàta, beddu di panza e beddu di balata
Sant’Agata, bello di pancia e bello di base
Santu Nicola, beddu di dintra e beddu di fora
San Nicola, bello di dentro e bello di fuori
Sant’Onuratu, né ajumu né passatu
Sant’Onorato, né azimo né passato di lievitazione
Santa Catarina, lu me pani comu a chiddu d’a riggina
il mio pane come quello della regina
San Giuvanni, criscilu beddu ranni
San Giovanni, crescilo bello grande
Sant’Austinu, ogni pani quantu ‘n cufinu
Sant’Agostino, ogni pane quanto una gerla
Santu Ramunnu, crisci lu pani quantu lu furnu
San Raimondo, fa’ crescere il pane quanto il forno
Crisci crisci ca Diu ti binidìci
Cresci cresci, che Dio ti benedice
Melting pot in salsa sicula
Riparato dalla premessa sul rischio di apparire retorico, posso lanciarmi nell’impegnativa affermazione che ogni piatto della cucina siciliana è un pezzo di cultura. Sono qui a parlare di cucina, ma mi toccherà citare l’intenso melting pot etnico dal quale tutti noi siciliani discendiamo, così come dovrò disturbare la storia, l’antropologia, il paesaggio, la psicologia e il folklore.
Durante i secoli l’isola è stata conquistata da Greci, Fenici, Romani, Bizantini, Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi, Austro-Borbonici, Piemontesi. E non finisce qui. Perché alle dominazioni politiche si sono affiancate altre influenze meno aggressive e più squisitamente culturali. Importante è stata quella ebraica, specialmente per quanto riguarda l’elaborazione delle verdure e la preparazione delle frattaglie. Poi c’è stata – e c’è tuttora – l’influenza tunisina dovuta agli stretti rapporti tra dirimpettai nel Canale di Sicilia e che trova la sua massima espressione nel cous cous preparato a mano, con tempo e sapienza, nel triangolo compreso tra Pantelleria, San Vito Lo Capo e Trapani. Tutto questo, molto prima che diventasse di moda (quello precotto). E sono tante le somiglianze con la cucina genovese: il pesto trapanese è cugino di quello ligure, la farinata è imparentata con le panelle, le verdure ripiene sono fatte con ricette simili e il pesce azzurro è trattato allo stesso modo e con la stessa devozione (acciughe ripiene, acciughe fritte al pomodoro, polpette di acciughe). Questo strano gemellaggio è senz’altro dovuto alle affinità climatiche, ma soprattutto agli intensi scambi commerciali tra i porti isolani e quello di Genova. Come si sa, la Sicilia fu il granaio d’Italia e il primo grande laboratorio della pasta che proprio qui veniva sperimentata in nuove ricette e forme. Contemporaneamente a Genova sorgevano i primi grandi pastifici (siamo tra il 1200 e il 1300) che dalla Sicilia importavano grano e maestranze specializzate. In questa condizione di scambio anche i saperi gastronomici entrarono virtuosamente in un circuito arricchente per le due terre. Infine non vanno trascurati gli apporti della straordinaria cucina di Napoli che rimase unita a Palermo per secoli nel Regno delle Due Sicilie.
I siciliani si sono comportati come vere proprie carte assorbenti verso i popoli con i quali sono venuti a contatto. Un po’ per meglio sopravvivere, un po’ per l’ospitalità greca, un po’ per naturale esterofilia e un po’ per la tendenza all’emulazione. Basta vedere come la cucina vegetariana sappia imitare quella carnivora, la cucina povera la ricca, i frutti di martorana la natura.
I siciliani hanno preso di tutto da tutti: cromosomi, vocaboli, stili di vita, e naturalmente cibi e pietanze, elaborando e arricchendo a ogni passaggio di dominazioni i piatti di una cucina che oggi si presenta ricca, fantasiosa e raffinata come poche altre.
Una cucina più nazionale che regionale
È proprio a questo straordinario talento per l’assimilazione del diverso che si deve una cucina così unitaria in un’isola tanto grande.
Le varianti dei piatti ovviamente sono numerose e così le specialità locali, ma stanno alla cucina isolana come i dialetti alla lingua. A tavola i corregionali si capiscono sempre e non c’è alcun piatto “importante” nel quale un siciliano non si riconosca. Da qualsiasi parte siciliano e piatto provengano.
In Lombardia, per esempio, un mantovano avvezzo alle tipicità della Bassa Padana e ai piatti della cucina gonzaghesca non può sentire come propria la cucina d’alta montagna della Valtellina. Le Marche, poi, riflettono nei piatti la pluralità del loro nome. Anzi, sono una vera e propria confederazione gastronomica capace di passare dalla cucina settentrionale del burro a quella meridionale del peperoncino. A nord sono influenzate dalla Romagna, a sud dall’Abruzzo a ovest da Umbria, Toscana e Lazio e a est dal mare, una stimolante Torre di Babele gastronomica capace di mutare a ogni dozzina di chilometri.
La Sicilia, invece, non ha confini che non siano il solo mare e non subisce influenze trasfrontaliere. È anzitutto un’isola e i siciliani sono isolani veri, con tutti i pregi e difetti di chi è abituato a sentirsi sempre un po’ più separato, diverso e lontano dal baricentro della Nazione. Sulla carta geografica lo stretto di Messina è largo solo tre chilometri, ma nella testa e nel sentire dei siciliani quei tre chilometri potrebbero essere tremila. Tanto che alla fine della seconda guerra mondale, il movimento separatista siciliano parlava con realismo della possibilità di annessione della Sicilia agli Stati Uniti d’America. I siciliani dell’est e dell’ovest, del nord e del sud, del centro e della costa hanno finito con il riconoscersi gli uni negli altri fondendosi in un’unica cultura. In più, sono sempre stati conquistati “in blocco” dai dominatori con i quali hanno sempre interagito intimamente secondo un’attitudine condivisa.
Pasta, olio d’oliva, verdure e pesce azzurro sono i quattro punti cardinali gastronomici validi ovunque. Cambia qualche ingrediente, qualche nome, ma i piatti restano quelli. La Pasta ca’ Norma trionfa a Catania ma è amata in ogni contrada della regione anche se con un altro nome (pasta chi milinciani), le arancine della Sicilia occidentale diventano arancini, al maschile, nell’orientale e cambiano dalla forma rotonda a quella appuntita a seconda di dove si spostano, ma sono fatte ovunque e con la medesima ricetta. Allo stesso modo, i dolci si ripropongono con i medesimi ingredienti-base che sono ricotta, mandorle, miele, pinoli, canditi, zuccate, cioccolato e fichi secchi, oltre che con la stessa vistosa, orgiastica varietà di forme e colori.
Tutto questo ha determinato un’unitarietà gastronomica che assieme ad altre caratteristiche, come l’abbondanza di piatti, la loro rilevanza storica, l’unicità e la forte personalità che li rende ovunque riconoscibili, impone l’idea di una vera “Cucina Nazionale”.
La Grande Tavolata
Tralasciando le mense preistoriche di Siculi e Sicani, le radici più antiche della Cucina Siciliana sono quelle greche. Greco è l’amore incondizionato per la ricotta e fu proprio l’affetto arcaico per questo latticino a ispirare ai grandi maestri di pasticceria arabi i prototipi degli attuali, celeberrimi dolci a base di ricotta.
Le mani islamiche dei mori passarono poi il testimone a quelle cristiane dei Normanni, e queste a quelle consacrate delle suore dei monasteri di clausura, veri centri di sperimentazione dell’arte pasticcera. I risultati finali sono la cassata, i cannoli e una quantità di piccole preparazioni locali (cassateddi, sfingi, cartocci, iris) nelle quali la ricotta è variamente elaborata con cioccolato, cannella, canditi, cacao amaro, liquori, quindi racchiusa dentro a vari tipi di pasta e infine fritta oppure infornata. Greca è anche l’origine dei dolci di mandorle e miele, così come la passione per le olive che in Sicilia non si accontentano del modesto ruolo di stuzzichino, ma diventano ingredienti fondamentali di piatti di carne (cunigghiu a’ stimpirata) di pesce (baccalà fritto con le olive nere, stoccafisso alla ghiotta) oppure conquistano lo status di vero e proprio piatto come nell’insalata di olive verdi con sedano, aglio, prezzemolo, olio e origano (alivi cunzati) o le olive nere fritte con origano, aceto e aglio. Sempre dalla Magna Grecia proviene l’uso dell’origano, diffusissimo nei piatti di tutta la regione e che vi consiglio di gustare nella rianata (origanata) trapanese, una pizza con pomodoro, pecorino, aglio, prezzemolo e tanto, tanto origano.
Agli arabi si deve l’importazione di nuove importantissime coltivazioni: le arance, il riso, lo zafferano e l’uso del sesamo che ancora oggi guarnisce il pane ed è la base dolci come la cubbaita, un torrone di sesamo e miele. Arabo anche il sorbetto di limone, oggi chiamato granita, e quello delizioso al gelsomino. Per queste fresche golosità furono costruite in tutta l’isola (e non solo sull’Etna, come viene solitamente riferito) le neviere, dei magazzini sotterranei idonei alla conservazione della neve fino alla stagione calda. E’ arabo anche il marzapane, la pasta di mandorle che in tempi successivi le monache del convento della Martorana a Palermo elaborarono artisticamente dandogli forma di frutta e ortaggi. Per questo in Sicilia la frutta di marzapane si chiama “martorana”.
Alle monache si devono anche gli agnelli pasquali di marzapane ripieni di pasta di pistacchio (opulenta specialità di Favara) oltre a una quantità veramente cospicua di specialità tra le quali ricordo le cucchitelle (biscotti ripieni di zuccata), il cous cous dolce ai pistacchi, le minni di virgini (biscotti ripieni di zuccata e cioccolato a forma di seni) e le ova murina (crépes scure alla mandorla cacao e caffè ripiene di crema biancomangiare).
Con i Normanni e gli Angioini entrarono nell’alimentazione popolare lo stoccafisso, il baccalà, le aringhe affumicate e quelle salate, più una serie di piatti aristocratici francesi che dopo la rivolta dei Vespri del 1282 si diffusero fra la gente comune subendo un’inevitabile volgarizzazione. Di questa epoca è la broscia (brioche) che accompagnerà le granite e verrà riempite di gelato, il rollò (o farsumagru o bruciuluni), il gattò e i fricassé. Di origine francese è anche lo specialissimo affetto per l’aglio.
Grazie all’influenza spagnola, la Sicilia entrò presto in contatto con le novità arrivate dalle Americhe assimilandole velocemente: peperoni, zucche, pomodori, tacchini e quel cacao che ancora a Modica viene lavorato a bassa temperatura, evitando il concaggio, con il risultato di un cioccolato molto simile a quello che consumavano gli Aztechi. Tipiche di tutta la Contea di Modica sono anche le ‘mpanatigghie, ravioli dolci al forno ripieni di cacao amaro e carne di vitello discendenti delle empanadas. Stessa origine hanno le scaccie e le scacciate, prodotti da forno variamente ripieni di ortaggi, formaggi, carni, pesci, uova.
Derivano dalla tortilla le numerosissime frittate preparate di volta in volta con le fave, i piselli, i carciofi, la ricotta di pecora fresca, le patate, i finocchietti selvatici, l’asparagina selvatica e altre verdure di campo. Raramente se ne trovano di migliori nel resto del paese, quindi conviene pensarci bene prima di ritenerle una preparazione banale e declinare l’invito ad assaggiarle. Fra i dolci, l’importazione più importante è quella del Pan di Spagna, quasi mandato dalla provvidenza a fare da supporto alla cassata.
Specialmente su queste basi spagnole, oltre che su quelle francesi del periodo Normanno e Angioino, la cucina baronale del sette-ottocento, infine, ha costruito i suoi sontuosi piatti elaborati fino al barocchismo dai celebri monsù (sicilizzazione di monsieur), i cuochi di origine francese che le famiglie nobili si contendevano persino a colpi di duello.
Vere e proprie superstar della gastronomia, i monsù non disdegnavano di istruire, spesso d’intrallazzo e a pagamento, i più modesti “cuochi di paglietta” a servizio presso le famiglie borghesi. Il risultato di questa collaborazione interclassista è stata una cucina raffinata a tutti i livelli sociali, senza una netta distinzione tra cucina nobile, borghese e popolare.
Cucina di popolo e di signori
Grazie all’arte dei monsù, anche la cucina popolare ha avuto modo di evolversi in preparazioni raffinatissime a dispetto della povertà degli ingredienti. Storico e sociologico il motivo di questa omologazione gastronomica tra classi: i palazzi dei centri storici di città e paesi prevedevano una stretta fusione tra nobiltà e popolo. I signori stavano al primo piano, detto “Piano Nobile”, mentre al pianterreno e in soffitta alloggiava stabilmente la servitù che, oltre a servire i padroni di casa, svolgeva nei locali della corte interna attività artigianali e di piccolo commercio. Una separazione fittizia, con tutti che entravano e uscivano dallo stesso portone, attraversavano gli stessi cortili, salivano e scendevano le stesse scale. La popolana si spostava con un brevissimo tragitto dalle sue povere stanze al piano nobile dove manipolava le costose prelibatezze della cucina patrizia e una volta tornata a casa non mancava di copiarla sostituendo gli ingredienti troppo cari per le sue finanze con succedanei a buon mercato. Così sono nate le melanzane a “quaglia”, con le costose quaglie sostituite dalle modeste melanzane. E così sono nate le sarde a beccafico, che con la loro forma arrotolata e la piccola coda svettante ricordano i preziosi uccelletti dalle carni pregiatissime che si nutrono di fichi. Naturalmente, la sguattera del monsù non tralasciava di proporre ai padroni la “sua cucina”, quella povera, e questi l’accettavano di buon grado anche perché era puntualmente richiesta dal padrone di casa quando mangiava in privato e non era costretto a esibire le esotiche raffinatezze francesi, di moda ma fatalmente lontane dagli amati sapori della terra natale. I monsù non resistevano alla tentazione di impreziosire le ricette popolane con i preziosi pistacchi, l’ancor più prezioso zafferano, i pinoli e l’uvetta sultanina; il risultato finale veniva a sua volta riassorbito dalla popolana che aveva inizialmente fornito le ricette.
Le sguattere, quindi, non avevano soggezione né sacro terrore per il pasto aristocratico ed è anche grazie a loro che oggi l’antica cucina baronale spesso coincide con quella odierna dei giorni di festa.
A proposito, va ricordato che molti piatti tradizionali si presentano con una serie di varianti più o meno ricche proprio per via di questo intenso va-e-vieni interclassista di ricette. E’ così per la caponata, che partendo da una base povera di melanzane, pomodoro, sedano, cipolla, capperi e olive, può arricchirsi di asparagi, polipetti, pesce spada, bottarga, gamberi e perfino di preziose aragoste. Lo stesso avviene per il falsomagro, un enorme involtino di carne di vitellone rosolato e poi cotto in umido nel vino bianco o nel sugo di pomodoro. Come anticipa il suo nome, si tratta di una preparazione “a sorpresa”, perché dentro alla fetta di carne magra c’è una vera e propria cornucopia di delizie: salsiccia, piselli, carne tritata, prosciutto, provolone, uova sode, cipollotti. Tutti gli ingredienti possono essere sostituiti da equivalenti più poveri: il prosciutto con la mortadella, la provola col primo sale, la carne con frittatine di verdura secondo il consueto uso di succedanei poveri nel quale le massaie siciliane sono imbattibili.
La cucina dell’interno
All’interno dell’isola si custodiscono le tradizioni gastronomiche più arcaiche e squisitamente elleniche. Verrebbe da pensare che per trovare le tracce gastronomiche dell’antica Grecia si debba andare ad Agrigento o a Siracusa. Non è così. Queste due città furono, è vero, due metropoli e massime potenze della Magna Grecia, ma la loro posizione sulla costa nei secoli successivi favorì l’esposizione alle sovrapposizioni arabe, normanne, angioine e spagnole con l’assorbimento di raffinatezze estranee al rigore agro-pastorale della cucina ellenica che mette in primo piano i prodotti della terra e della pastorizia. Sempre elaborandoli – perché quello è un vezzo siciliano insopprimibile – ma in modo più contenuto.
Se mangiando lungo la costa si ha la sensazione di assaggiare sempre un pezzo diverso di storia, nel cuore della Sicilia si può sentire il gusto della preistoria.
I sapori sono quelli forti del finocchio selvatico, degli asparagi selvatici, degli sparaci di tronu (getti teneri di ruscus), dei mazzareddi (germogli di senape selvatica) e di un’infinità di altre verdure spontanee ed erbe aromatiche. Qui si trova la frascatula, una polenta di farina di semolino con il finocchietto, e la salsiccia aromatizzata con i semi di finocchio selvatico e cotta tra due tegole ricoperte di braci. Gli agnelli e i capretti sono ancora arrostiti “alla greca” in grandi pezzi steccati con aglio e erbe aromatiche, e anche i sontuosi falsomagri della cucina angioina vengono semplificati in una grossa polpetta ripiena di uovo sodo, prezzemolo e formaggio. Va sempre però tenuto conto che la Sicilia è sempre e ovunque terra di contraddizioni. Perciò proprio a Enna, che è l’epicentro della Sicilia e quindi la roccaforte della semplicità, si trova la più complessa ricetta di trippa in circolazione in Italia. E’ la trippa all’olivetana, un timballo con strati di trippa, melanzane fritte, ragù di carne, caciocavallo, primosale, uova sode, garofano e cannella.
In conclusione
La conclusione di questo discorso sulla cucina siciliana coincide con la sua premessa. La Sicilia è una terra da sempre in difficile equilibrio, tormentata, problematica, difficile, malamente sfruttata dalla cattiva politica locale e nazionale, dagli stranieri, dagli italiani e dagli stessi siciliani. Le responsabilità remote sono denunciate dalla storia, quelle attuali sono sotto gli occhi di tutti. Un occhio attento, però, può facilmente vedere quanto “il buono” disponibile sia ancora un’enormità!
Quasi una trentina di anni fa si parlò di Rinascimento Siciliano. Non era un semplice slogan, perché quella parola, Rinascimento, per i siciliani ha un significato grande e doloroso dal momento che l’hanno saltato a piè pari.
Quando nel Nord e nel Centro della penisola nascevano i liberi comuni e le signorie, in Sicilia Federico II restaurava il feudalesimo, fissandola al Medio Evo e consegnandola a una serie di problemi causati dalla mancata evoluzione sociopolitica nei tempi naturali. Con il tempo e la stratificazione delle dominazioni i problemi si sono cristallizzati in difetti, talmente radicati da essere considerati da molti costitutivi dell’indole isolana e perciò quasi inestirpabili. Sono rassegnazione, servilismo, povertà, pratica sistematica della raccomandazione, emigrazione, politicantesimo e un esasperato individualismo corredato dall’assenza di rispetto della “cosa comune” (siciliani socievoli ma non sociali!).
Negli anni ottanta sembrava che tutto stesse cambiando velocemente in meglio. Non fu così. Perché tranne che non si parli di rivoluzione, i grossi cambiamenti sono processi lenti e farciti di regressi. Ora sembra nuovamente di vivere un momento buono, propulsivo. Rimangono molti dei problemi di sempre, ma i siciliani ricominciano a sentirsi padroni a casa loro e i più illuminati si sentono di nuovo chiamati a fare la loro parte, secondo il mestiere, la capacità e le possibilità di ognuno.
C’è bisogno di tutti: di politici onesti, di imprenditori coraggiosi, di donne e uomini di cultura, di artisti e di chiunque possa riempire le pagine dei giornali con buone notizie siciliane.
Importantissimi gli agricoltori, i pescatori, gli allevatori, le cuciniere e i cucinieri, le cuoche e i cuochi, i commercianti, gli artigiani che producono cibi, i ristoratori, gli enologi, i gastronomi, gli operatori turistici e i comunicatori. So che sembra una chiamata alle armi e in verità lo è. Tutte queste professionalità sono depositare di un patrimonio immenso e prezioso che tanto di buono può portare all’immagine e all’economia di questa terra.
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