Martino Ragusa, il Blog

Ricette di cucina, cultura gastronomica e divagazioni

cucina calabrese
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La cucina della Calabria – Basso profilo e alta qualità

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La cucina calabrese ha subito influenze greche, romane, arabe, albanesi, normanne e spagnole.  Ma non si deve pensare alla complessità delle cucine siciliana e napoletana che hanno subito le medesime influenze. Queste ultime sono vistose, esibizioniste, fortemente influenzate dal barocchismo spagnolo e dalla sensualità araba. Al contrario, pur presentando affinità con le confinanti, la calabrese ha mantenuto un basso profilo, limitando le somiglianze ai piatti più semplici e poveri e basandosi sugli ingredienti locali. Che sono tanti e di tutte le fasce climatiche grazie a un territorio fatto di montagne di oltre i duemila metri velocemente degradanti sul mare.
In una regione dell’estremo sud, per esempio, non verrebbe mai in mente che i funghi siano un cardine della gastronomia, invece in Calabria i funghi della Sila tengono banco. Anzitutto il Rossito (Lactarius delicius), il più tipico dei funghi silani, e poi le Spugnole, dette Trippicedde, il Boleto luteo chiamato Vavusu, le Mazze di tamburo e i Galletti.

Lo stesso discorso vale per i salumi. Qui le montagne sono rigogliosamente verdi e i boschi ricchi di querce e castagni, un habitat ideale per il suino nero di Calabria. Assieme all’allevamento allo stato brado o semibrado si è affinata la tecnica dei norcini che nel tempo hanno ideato prodotti di grande pregio e originalità

La ‘nduja di Spilinga, ormai famosa in tutta Italia, è un salume morbido nato per recuperare quello che restava della lavorazione degli altri salumi come rifilature di soppressata, pancetta, capocollo, guanciale e lardo; oggi si utilizzano tagli grassi del maiale. Il suo nome deriva probabilmente da andouille, una salsiccia francese fatta con trippa, fegato, polmoni e interiora e si pensa che sia arrivata in Calabria durante il periodo napoleonico.
Dopo essere stata insaccata, la ‘nduja viene affumicata e aromatizzata con peperoncino, aggiunto in abbondanza sia perché è molto gradito sia per le sue doti di conservante naturale. Il rapporto medio è di due parti di carne per una di peperoncino, quelle più forti arrivano alla proporzione di uno a uno. 

Nel paniere dei salumi troviamo poi le salsicce stagionate dalla classica forma a U e di colore rossastro per l’aggiunta di peperone rosso in polvere oppure di peperoncino a seconda che siano dolci o piccanti. La soppressata è fatta con carni della coscia e della spalla del maiale, rifiniture di prosciutto e pancetta, finocchietto selvatico e peperoncino.

Il Pezzente deve il suo nome al fatto che è l’ultimo salame preparato dopo la macellazione del maiale e quindi fatto con le carni avanzate e frattaglie come fegato, cuore, milza e polmone. 

Le conserve

I salumi non sono i soli cibi conservati. I frequenti assedi, assieme a una povertà atavica, hanno spinto i calabresi alla conservazione del cibo quando era disponibile per poter affrontare i periodi di carestia e di assedio. Grazie a un’esperienza maturata in secoli di aggiustamento della tecnica, oggi in Calabria si trovano sott’oli tra i migliori d’Italia: funghi, pomodori secchi, melanzane, peperoncini ripieni, lampascioni.
E poi c’è la Rosa Marina, detta anche Caviale di Crucoli, Sardella di Crucoli, Caviale dei poveri, Mustica, Unnata. Tanti nomi che testimoniano la grande considerazione in cui si tiene questo prodotto ottenuto da sarde dello Ionio neonate, fermentate con sale e condite con finocchio selvatico e molto, molto peperoncino. Per evitare sorprese in bocca è consigliabile un approccio prudente. Magari cominciando ad assaggiarla come condimento di un piatto di spaghetti e poi marciare verso la conquista della rosa marina in purezza spalmata su una fetta di pane. Oltre che a Crucoli, si produce a Trebisacce, Schiavonea, Rossano, Cariati, Mirti, Amantea, Catanzaro e Crotone.

I Formaggi della Sila

Fin dai tempi della Magna Grecia l’Altopiano della Sila è il regno indiscusso di pastori e bovari. I tipi di formaggi sono tanti, sia di latte pecorino che vaccino. Imperdibile è la sciungata, un formaggio fresco, di latte vaccino e a pasta filata lavorata per lungo tempo. Dopo la lavorazione le forme ovali vengono strette dentro a steli di giunco e legate alle estremità.  Il sapore è aromatico e leggermente acidulo.

Poi c’è il butirro, un formaggio sempre a pasta filata a base di latte di mucca, crema di latte e crema di siero con all’interno una sfera di burro. È prodotto in tutta la regione ma si dice che il migliore sia il silano perché è fatto con latte di vacche annicchiariche, così sono chiamate quelle che hanno partorito da un anno.
Infine, il caciocavallo silano. Ottenuto da latte crudo vaccino e a pasta filata, è uno dei formaggi più diffusi di tutto il meridione d’Italia. La sua area di produzione sconfina dalla Calabria e si estende a macchia di leopardo in Puglia, Basilicata, Campagna e Molise. L’appellativo geografico rende omaggio allo storico lavoro dei bovari calabresi che nell’altopiano della Sila lo preparavano nei loro rifugi in legno, i “vaccarizzi”. Ma è anche opinione comune che sia il migliore.

la “Farci-provola”, un formaggio di latte di mucca farcito all’interno con soppressata o capocollo stagionato, e gli “Animaletti di Provola”, un formaggio di latte vaccino lavorato a forma di cavallo sono prodotti nell’istmo di Marcellinara. Lungo appena 30 chilometri è il punto più stretto della Calabria ed è dominato dal monte Tiriolo dal quale si gode lo scenario dello Ionio e del Tirreno separati da uno stretto lembo di terra.

Peperoncino, cipolla e cedri

Il peperoncino è talmente penetrato nella gastronomia di questa terra che molti lo considerano “autoctono” calabrese. Invece fa parte della schiera dei nuovi cibi importati dalle Americhe dagli spagnoli, solo che qui ha messo radici, sia in senso reale che metaforico. Il Capscicum Annuum ha trovato in Calabria un clima perfetto per la sua coltivazione e un’accoglienza entusiasta dovuta, come spesso succede, anche a motivi economici. Era la meno costosa delle spezie esotiche e l’ideale per arricchire di sapore e colore i piatti poveri di una cucina contadina a base di verdure e legumi. Inoltre, grazie alle sue proprietà conservanti e coloranti è stato adottato con entusiasmo dai norcini calabresi che l’hanno fatto diventare l’ingrediente distintivo dei loro salumi.

A questi buoni motivi vecchi ormai di cinque secoli, si sono aggiunte negli ultimi decenni le raccomandazioni dei nutrizionisti che lo consigliano sempre più come il “pepe che non fa male”. Anzi fa bene perché ha proprietà antiossidanti ed è capace di abbassare i livelli di colesterolo nel sangue. Le varietà di peperoncino coltivate in Calabria sono tutte della famiglia del capsicum annum. Sono il capsicum abbreviatum, l’acuminatum, il fasciculatum, il cerasiferum, il bicolor e il christmas candle.

Onnipresente in tavola, quasi come il peperoncino, è la Cipolla rossa di Tropea. I calabresi fanno proprio bene ad abusarne. Particolarmente dolce per l’alto contenuto in glucosio, fruttosio e saccarosio, la Tropea si piazza ai massimi livelli di pregio tra le circa 50 varietà di cipolla esistenti. Fu importata dai fenici ed è coltivata da oltre 2000 anni nei territori di Tropea, Ricadi e Capo Vaticano dove ha trovato il microclima ideale senza troppi sbalzi di temperatura, e i terreni freschi e limosi di cui necessita.

Si può trovare in 4 diversi aspetti:

1. Cipollotti. Di colore bianco-rosato, sono venduti in primavera a mazzi con il ciuffo verde  lungo circa 40 centimetri. Sono indicati per la preparazione di insalate e per il pinzimonio

2. Cipolle fresche: hanno colore bianco-violaceo e una coda di circa 60 centimetri. I bulbi hanno un diametro di 4-10 centimetri. Si gustano crude in insalata.

3. Cipolle da serbo: sono di colore rosso violaceo, senza coda e si trovano tutto l’anno. I bulbi sono deumidificati per circa sette giorni. Vanno usate in tutte le preparazioni che richiedono una cipolla rossa dolce e non pungente. Può essere anche intrecciata.

Il lembo della costa cosentina che va da Praia a Paola è la Riviera dei Cedri, zona di intensa coltivazione di questo agrume. “Frutto puro” per la religione ebraica e protagonista dei banchetti religiosi, in agosto il cedro richiama a Diamante rabbini da tutta Italia che vengono a seguire personalmente il raccolto per controllare che sia conforme alle regole della kasherut. Per i non ebrei, serve alla preparazione di sciroppi, liquori, canditi e gelati che potete trovare in tutta la Riviera. Soprattutto a Cetraro, che dal cedro prende il nome, e a Diamante.

La tavola

Per l’antipasto c’è solo l’imbarazzo della scelta tra salumi e formaggi e conserve.  Si accompagnano magnificamente con la pitta, la focaccia fatta con pasta di pane e ritenuta l’antenata della pizza. Le conserve sono l’ideale per condire le amatissime bruschette di pane casareccio.

Passando ai primi, si può cominciare con qualcosa di semplice come la Pasta muddica  e alici, gli spaghetti o i maccheroni di casa sono conditi con acciughe salate sciolte nell’olio e pangrattato abbrustolito.  Oppure con un piatto di Rascatelli, una semplice salsa di pomodoro condisce cavatelli di diversa lunghezza a seconda del numero di dita usate per cavare la pasta. Ci sono Rascatelli a due, a tre a quattro dita, fino a otto. La Pasta e patate alla tiedda è una pasta al forno con patate, salsa di pomodoro, parmigiano grattugiato, alio e origano.

Passando a preparazioni più sostanziose troviamo la Pasta al forno (Pasta ‘ncasciàta nel reggino per l’influenza siciliana) con sugo di carne di maiale, salumi, polpettine, rondelle di uova sode, provola silana e/o scamorza. In estate vengono aggiunti strati di melanzane fritte.

Le Sagne sono una pasta di sola semola di grano duro e acqua, tirata a sfoglia non troppo sottile e poi tagliata come le classiche lasagne. Si preparano come la pasta al forno.

Le Lagane sono corte pappardelle di grano duro e acqua, anche queste senza uova nell’impasto. Si condiscono con una minestra ristretta di ceci (Lagane e ceci) o di fagioli.

Tra i piatti in brodo, il Brodu chinu è una stracciatella fatta con uova sbattute assieme a pecorino grattugiato, pangrattato e prezzemolo. Hanno un bellissimo nome le “millecosedde”, una minestra povera che utilizza piccole quantità di legumi insufficienti a preparare una zuppa se presi singolarmente e le rimanenze di pasta. La Licurda è una zuppa del cosentino a base di cipolle di Tropea;  il macco, una purea di fave con spaghetti spezzati, si serve con pepe nero e un giro di olio extravergine di oliva.

E arriviamo ai secondi. Il più tipico è il soffritto o frissurata, un umido fatto con pancetta, cotenna, parti di testa di maiale disossate, musetto e altre parti callose cotte con il vino rosso. Il tutto è aromatizzato con alloro e abbondante peperoncino. Allo stesso modo viene preparato il soffritto di agnello e di capretto. Il Morzeddhu catanzarese, invece, utilizza interiora bovine.
Altrettanto impegnativo è il Capocollo fritto nella ‘Nduja assieme alla cipolla di Tropea. Più leggeri sono i piatti a base di agnello e capretto, cotti al forno, in umido e alla brace.

Tra i pesci, pur con tanto mare a disposizione, trionfa lo stoccafisso del Nord Europa orma naturalizzato da secoli con il nome di “Stocco”. Quello alla mammolese è cotto in umido con  con salsa di pomodoro, cipolle, patate, olive in salamoia e peperoncino. Si prepara anche con i funghi, con i fagioli, al forno, arrostito sulla brace e perfino crudo, marinato nel limone, con sale e prezzemolo.

Non manca però il pesce fresco specialmente il pesce azzurro e soprattutto lo Spada nel reggino dove viene arrostito e bagnato con salmoriglio, una semplice salsa fatta con olio, limone sale, pepe e prezzemolo o origano; oppure alla ghiotta, in umido con pomodoro e olive.

Molto interessante e dietetica la preparazione dello Stocco alla bagnarota, cotto a bagnomaria con olio, limone, origano e capperi.

Numeroso è l’elenco dei dolci tradizionali quasi tutti votivi e quindi preparati per le feste religiose. Tra i tanti segnaliamo gli ‘Nzuddi o Mostacciuoli, celebrativi di eventi speciali come fidanzamenti e matrimoni oltre che devozionali e immancabili nelle feste patronali. Sono biscotti non lievitati fatti con farina e miele, tipici delle feste patronali hanno svariate forme, a cesto,  cuore, bambola, pesce, cavallo e altri ammali. Quando sono usati come ex voto prendono la forma di questi.

La Pitta ‘mpigliata o Pitta ‘nchiusa di San Giovanni in Fiore è un rotolo di pasta farcito e tagliato “a girella” ripieno di uva passa, gherigli di noce, pinoli, mandorle, cosparsa di miele o irrorata con liquore.

La Giurgiulèna è un torrone che si fa a Natale con sesamo e miele. Natalizi sono anche i Turdilli, gnocchetti di pasta fatta con farina e vino, fritti e cosparsi di miele.

La Varchiglia alla monacale, tipica di Cosenza si deve alle Carmelitane scalze: un guscio di pasta frolla a forma di barchetta contiene un morbido ripieno di mandorle, zucchero e cioccolato. 

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