Affrontare il tema della gastronomia dell’Antica Roma significa anzitutto sottrarla ai luoghi comuni e restituirla alla storia. Per fortuna sappiamo molto dei secoli a cavallo dell’Anno Uno grazie alle numerosi fonti archeologiche e letterarie che compongono un quadro di grande interesse e soprattutto efficace alla contestazione di false percezioni della verità storica oltre che all’individuazione di affascinanti punti di contatto con la cucina attuale.
Durante questi due secoli la cucina romana subisce un cambiamento radicale dovuto all’accoglienza del modello greco, fondato sulla frugalità, integrato nella quotidianità al punto di diventare indistinguibile dall’originale. La sobrietà era visivamente rappresentata anche dall’esiguità della cucina spesso ridotta a un focolare in un angolo del locale dedicato al soggiorno.
Le fonti storiche principali sono Catone, Marco Terenzio Varrone, l’agronomo Lucio Giunio Moderato Columella, Rutilio Tauro Emiliano Palladio, Plinio il Vecchio, Marziale, Seneca.
Il luogo comune è quello del romano sdraiato sul triclinio che banchetta con pietanze elaborate e spettacolari. Cosa vera, ma limitata a una ridottissima élite. Una piccola verità che una volta dilatata è diventata luogo comune oscurando quella ben più grande che coinvolgeva tutti i ceti sociali inferiori rispetto a quello aristocratico – politico- plutarchico.
Il contrasto tra queste due verità, grande e piccola, si coglie nel confronto dei documenti tra l’ultimo secolo della Repubblica (Catone, De agri coltura prob. 160 a.C. ) e il primo del successivo secolo imperiale (Seneca, Epistulae morales ad Lucilium, 65 d.C.).
Seneca e Apicio sono gli alfieri di queste due tendenze. Seneca si scaglia contro la cucina aristocratica dei cuochi imperiali talmente elaborata da rendere irriconoscibili gli ingredienti originali. Proprio come la recente corrente gastronomica che ha portato la Nouvelle Cuisine a contestare l’elaborata cucina classica francese escofferiana sostituendola con una nuova, più semplice e basata sugli ingredienti. Come sappiamo, il principio della valorizzazione della materia prima è stato importato pari pari dalla Nuova Cucina Italiana.
Scrive Seneca (Epistulae morales ad Lucilium, 95, 19-28): “Oggi mangiare i cibi uno a uno non piace. I sapori vengono riuniti tutti insieme. Dovrebbero imbandirsi separatamente e invece sono mescolati in un’unica salsa. Un cibo vomitato non potrebbe essere più confuso.”
Anche con il garum, la celebre salsa a base di pesce azzurro, Seneca non ci va leggero definendolo “liquido marcio di pesci andati a male”.
Interessante anche il tono ambientalista, ante-litteram di millenni, quando descrivendo gli eccessi della cucina imperiale, parla di “Sperpero che devasta terra e mare”.
Con il medesimo spirito va anche presa la descrizione che Petronio Arbitro fa del banchetto di Trimalcione nel Satyricon. Quando racconta dei tordi che si levano in volo dal ventre aperto di un cinghiale, Petronio lo fa non con l’animo del cortigiano ma del critico che evidenzia l’esibizionismo sfrenato di un liberto arricchito.
A tutto questo si oppone Apicio (De re coquinaria) che risponde con le fastose ricette grondanti di ingredienti esotici: nuove carni (struzzi, faraone, pavoni), frutta (datteri) e spezie (pepe, zenzero, cannella, chiodi di garofano).
La normale giornata alimentare nell’Antica Roma si componeva di tre pasti:
- Jentaculum, la colazione. Era consumata in piedi (sine mensa) e consisteva negli avanzi della cena, pane, miele, formaggio, uova, latte, biscotti intinti nel vino.
- Prandium, il pranzo. Comprendeva formaggio, olive, fichi, pesce salato, uova, verdure, funghi, carni fredde, pane, vino. Anch’esso veniva consumato in piedi e quasi sempre fuori casa nelle taverne. È a Roma che è nato lo street food italiano e chi volesse avere un’idea di come fosse quello dell’antichità (non quello di adesso reso glamour dalla moda), dovrebbe andare a Napoli e Palermo ,dove i principali attori sono ancora le classi sociali inferiori. Mentre per quelle più elevate lo praticano sì, ma con circospezione proprio come i romani.
- Cena. Era divisa in tre momenti: Gustatio, l’antipasto con uova, verdure, ostriche.
Prima mensa, con piatti di pesce, carne, verdura, arrosti preparati in modo elaborato
Secunda mensa, il dessert con dolci e frutta secca e fresca.
Molto spazio veniva alle verdure e ai cereali con i quali veniva preparata la puls, la minestra definibile come il piatto marker della romanità.Quasi assente era la carne bovina. Buoi e vitelli venivano mangiati occasionalmente quando erano sacrificati. Il pollo compariva nelle tavole popolari mentre i ricchi ne mangiavano solo le parti considerate pregiate come le creste e i testicoli. Le carni più consumate erano quelle di agnello, pecora, capra, oca e maiale con grande attenzione alle interiora. Poi pesci e frutti di mare. Il maiale veniva anche trasformato in perna, coscia, salata e affumicata (prosciutto), sanguinacci, lardo, salsicce (laganae). Molti i tipi di pane.
Il vino dei romani era il Falerno, prodotto in Campania. Il problema era la sua conservazione e i metodi per mantenerlo ne cambiavano il sapore che tuttavia era gradito. Uno di questi era rivestire di pece le anfore, con inevitabile cambiamento del sapore, un altro metodo era la fumigazione. Inoltre era aromatizzato con mirto, petali di rosa. Venivano aggiunti miele, gesso, ostriche tritate ed era spesso tagliato con acqua di mare
Esempi di ricette:
Purè di punte di asparagi. Un passato cotto nel vino con uova.
Broccoli o cuori di carciofo bolliti e ripassati in padella con olio pepe sale e coriandolo:
Cacciagione (soprattutto lepri, fagiani e cinghiale) prima bollita e poi cotta alla griglia e condita con miele. Una leccornia erano i ghiri che venivano allevati in casa dentro anfore di terracotta:
Patina apiciana: Salsa fatta con mammelle di scrofa, pesce, pollo, uova, garum, vino e spezie.Uova sode con pepe olio, garum e laser (erba aromatica ora estinta simile all’assenzio).
Epytrum: olive snocciolate con olio, aceto, finocchio, cimino, menta.