La cucina calabrese ha subito influenze greche, romane, arabe, albanesi, normanne e
spagnole. Ma non si deve pensare alla
complessità delle cucine siciliana e napoletana che hanno subito le medesime
influenze. Queste ultime sono vistose, esibizioniste, fortemente influenzate
dal barocchismo spagnolo e dalla sensualità araba. Al contrario, pur
presentando affinità con le confinanti, la calabrese ha mantenuto un basso profilo,
limitando le somiglianze ai piatti più semplici e poveri e basandosi sugli
ingredienti locali. Che sono tanti e di tutte le fasce climatiche grazie a un
territorio fatto di montagne di oltre i duemila metri velocemente degradanti
sul mare.
In una regione dell’estremo sud, per esempio, non verrebbe mai in mente che i
funghi siano un cardine della gastronomia, invece in Calabria i funghi della
Sila tengono banco. Anzitutto il Rossito (Lactarius
delicius), il più tipico dei funghi silani, e poi le Spugnole, dette
Trippicedde, il Boleto luteo chiamato Vavusu, le Mazze di tamburo e i Galletti.
Lo stesso discorso vale per i salumi. Qui le montagne sono
rigogliosamente verdi e i boschi ricchi di querce e castagni, un habitat ideale
per il suino nero di Calabria. Assieme all’allevamento allo stato brado o
semibrado si è affinata la tecnica dei norcini che nel tempo hanno ideato
prodotti di grande pregio e originalità
La ‘nduja di Spilinga, ormai famosa in tutta Italia, è un
salume morbido nato per recuperare quello che restava della lavorazione degli
altri salumi come rifilature di soppressata, pancetta, capocollo, guanciale e
lardo; oggi si utilizzano tagli grassi del maiale. Il suo nome deriva
probabilmente da andouille, una
salsiccia francese fatta con trippa, fegato, polmoni e interiora e si pensa che
sia arrivata in Calabria durante il periodo napoleonico.
Dopo essere stata insaccata, la ‘nduja viene affumicata e aromatizzata con
peperoncino, aggiunto in abbondanza sia perché è molto gradito sia per le sue
doti di conservante naturale. Il rapporto medio è di due parti di carne per una
di peperoncino, quelle più forti arrivano alla proporzione di uno a uno.
Nel paniere dei salumi troviamo poi le salsicce stagionate
dalla classica forma a U e di colore rossastro per l’aggiunta di peperone rosso
in polvere oppure di peperoncino a seconda che siano dolci o piccanti. La
soppressata è fatta con carni della coscia e della spalla del maiale,
rifiniture di prosciutto e pancetta, finocchietto selvatico e peperoncino.
Il Pezzente deve il suo nome al fatto che è l’ultimo salame
preparato dopo la macellazione del maiale e quindi fatto con le carni avanzate
e frattaglie come fegato, cuore, milza e polmone.
Le conserve
I salumi non sono i soli cibi conservati. I frequenti
assedi, assieme a una povertà atavica, hanno spinto i calabresi alla
conservazione del cibo quando era disponibile per poter affrontare i periodi di
carestia e di assedio. Grazie a un’esperienza maturata in secoli di
aggiustamento della tecnica, oggi in Calabria si trovano sott’oli tra i
migliori d’Italia: funghi, pomodori secchi, melanzane, peperoncini ripieni,
lampascioni.
E poi c’è la Rosa Marina, detta anche Caviale di Crucoli, Sardella di Crucoli,
Caviale dei poveri, Mustica, Unnata. Tanti nomi che testimoniano la grande
considerazione in cui si tiene questo prodotto ottenuto da sarde dello Ionio
neonate, fermentate con sale e condite con finocchio selvatico e molto, molto
peperoncino. Per evitare sorprese in
bocca è consigliabile un approccio prudente. Magari cominciando ad assaggiarla
come condimento di un piatto di spaghetti e poi marciare verso la conquista
della rosa marina in purezza spalmata su una fetta di pane. Oltre che a Crucoli, si produce a
Trebisacce, Schiavonea, Rossano, Cariati, Mirti, Amantea, Catanzaro e Crotone.
I Formaggi della Sila
Fin dai tempi della
Magna Grecia l’Altopiano della Sila è il regno indiscusso di pastori e bovari.
I tipi di formaggi sono tanti, sia di latte pecorino che vaccino. Imperdibile è
la sciungata, un formaggio fresco, di latte vaccino e a pasta filata lavorata
per lungo tempo. Dopo la lavorazione le forme ovali vengono strette dentro a
steli di giunco e legate alle estremità.
Il sapore è aromatico e leggermente acidulo.
Poi c’è il
butirro, un formaggio sempre a pasta filata a base di latte di mucca, crema di
latte e crema di siero con all’interno una sfera di burro. È prodotto in tutta
la regione ma si dice che il migliore sia il silano perché è fatto con latte
di vacche annicchiariche, così sono chiamate quelle che hanno partorito da un
anno.
Infine, il caciocavallo silano. Ottenuto da latte crudo vaccino e a pasta
filata, è uno dei formaggi più diffusi di tutto il meridione d’Italia. La sua
area di produzione sconfina dalla Calabria e si estende a macchia di leopardo
in Puglia, Basilicata, Campagna e Molise. L’appellativo geografico rende
omaggio allo storico lavoro dei bovari calabresi che nell’altopiano della Sila
lo preparavano nei loro rifugi in legno, i “vaccarizzi”. Ma è anche opinione
comune che sia il migliore.
la “Farci-provola”,
un formaggio di latte di mucca farcito all’interno con soppressata o capocollo
stagionato, e gli “Animaletti di Provola”, un formaggio di latte vaccino
lavorato a forma di cavallo sono prodotti nell’istmo di Marcellinara. Lungo
appena 30 chilometri è il punto più stretto della Calabria ed è dominato dal
monte Tiriolo dal quale si gode lo scenario dello Ionio e del Tirreno separati
da uno stretto lembo di terra.
Peperoncino,
cipolla e cedri
Il peperoncino è
talmente penetrato nella gastronomia di questa terra che molti lo considerano
“autoctono” calabrese. Invece fa parte della schiera dei nuovi cibi importati
dalle Americhe dagli spagnoli, solo che qui ha messo radici, sia in senso reale
che metaforico. Il Capscicum Annuum ha trovato in Calabria un clima perfetto
per la sua coltivazione e un’accoglienza entusiasta dovuta, come spesso
succede, anche a motivi economici. Era la meno costosa delle spezie esotiche e
l’ideale per arricchire di sapore e colore i piatti poveri di una cucina
contadina a base di verdure e legumi. Inoltre, grazie alle sue proprietà
conservanti e coloranti è stato adottato con entusiasmo dai norcini calabresi
che l’hanno fatto diventare l’ingrediente distintivo dei loro salumi.
A questi buoni
motivi vecchi ormai di cinque secoli, si sono aggiunte negli ultimi decenni le
raccomandazioni dei nutrizionisti che lo consigliano sempre più come il “pepe
che non fa male”. Anzi fa bene perché ha proprietà antiossidanti ed è capace
di abbassare i livelli di colesterolo nel sangue. Le varietà di peperoncino
coltivate in Calabria sono tutte della famiglia del capsicum annum. Sono il
capsicum abbreviatum, l’acuminatum, il fasciculatum, il cerasiferum, il bicolor
e il christmas candle.
Onnipresente in
tavola, quasi come il peperoncino, è la Cipolla rossa di Tropea. I calabresi
fanno proprio bene ad abusarne. Particolarmente dolce per l’alto contenuto in
glucosio, fruttosio e saccarosio, la Tropea si piazza ai massimi livelli di
pregio tra le circa 50 varietà di cipolla esistenti. Fu importata dai fenici ed
è coltivata da oltre 2000 anni nei territori di Tropea, Ricadi e Capo Vaticano
dove ha trovato il microclima ideale senza troppi sbalzi di temperatura, e i
terreni freschi e limosi di cui necessita.
Si può trovare in
4 diversi aspetti:
1. Cipollotti. Di
colore bianco-rosato, sono venduti in primavera a mazzi con il ciuffo
verde lungo circa 40 centimetri. Sono
indicati per la preparazione di insalate e per il pinzimonio
2. Cipolle fresche:
hanno colore bianco-violaceo e una coda di circa 60 centimetri. I bulbi hanno
un diametro di 4-10 centimetri. Si gustano crude in insalata.
3. Cipolle da
serbo: sono di colore rosso violaceo, senza coda e si trovano tutto l’anno. I
bulbi sono deumidificati per circa sette giorni. Vanno usate in tutte le
preparazioni che richiedono una cipolla rossa dolce e non pungente. Può essere
anche intrecciata.
Il lembo della
costa cosentina che va da Praia a Paola è la Riviera dei Cedri, zona di
intensa coltivazione di questo agrume. “Frutto puro” per la religione ebraica e
protagonista dei banchetti religiosi, in agosto il cedro richiama a Diamante
rabbini da tutta Italia che vengono a seguire personalmente il raccolto per
controllare che sia conforme alle regole della kasherut. Per i non ebrei, serve
alla preparazione di sciroppi, liquori, canditi e gelati che potete trovare in
tutta la Riviera. Soprattutto a Cetraro, che dal cedro prende il nome, e a
Diamante.
La tavola
Per l’antipasto c’è solo l’imbarazzo della scelta tra salumi
e formaggi e conserve. Si accompagnano
magnificamente con la pitta, la focaccia fatta con pasta di pane e ritenuta
l’antenata della pizza. Le conserve sono l’ideale per condire le amatissime
bruschette di pane casareccio.
Passando ai primi,
si può cominciare con qualcosa di semplice come la Pasta muddica e alici, gli spaghetti o i maccheroni di casa
sono conditi con acciughe salate sciolte nell’olio e pangrattato
abbrustolito. Oppure con un piatto di
Rascatelli, una semplice salsa di pomodoro condisce cavatelli di diversa
lunghezza a seconda del numero di dita usate per cavare la pasta. Ci sono
Rascatelli a due, a tre a quattro dita, fino a otto. La Pasta e patate alla
tiedda è una pasta al forno con patate, salsa di pomodoro, parmigiano
grattugiato, alio e origano.
Passando a
preparazioni più sostanziose troviamo la Pasta al forno (Pasta ‘ncasciàta nel
reggino per l’influenza siciliana) con sugo di carne di maiale, salumi,
polpettine, rondelle di uova sode, provola silana e/o scamorza. In estate
vengono aggiunti strati di melanzane fritte.
Le Sagne sono una pasta di sola semola di grano duro e
acqua, tirata a sfoglia non troppo sottile e poi tagliata come le classiche
lasagne. Si preparano come la pasta al forno.
Le Lagane sono
corte pappardelle di grano duro e acqua, anche queste senza uova nell’impasto.
Si condiscono con una minestra ristretta di ceci (Lagane e ceci) o di fagioli.
Tra i piatti in brodo, il Brodu chinu è una stracciatella
fatta con uova sbattute assieme a pecorino grattugiato, pangrattato e
prezzemolo. Hanno un bellissimo nome le “millecosedde”, una minestra povera che
utilizza piccole quantità di legumi insufficienti a preparare una zuppa se
presi singolarmente e le rimanenze di pasta. La Licurda è una zuppa del
cosentino a base di cipolle di Tropea;
il macco, una purea di fave con spaghetti spezzati, si serve con pepe
nero e un giro di olio extravergine di oliva.
E arriviamo ai secondi. Il più tipico è il soffritto o
frissurata, un umido fatto con pancetta, cotenna, parti di testa di maiale
disossate, musetto e altre parti callose cotte con il vino rosso. Il tutto è
aromatizzato con alloro e abbondante peperoncino. Allo stesso modo viene
preparato il soffritto di agnello e di capretto. Il Morzeddhu catanzarese,
invece, utilizza interiora bovine.
Altrettanto impegnativo è il Capocollo fritto nella ‘Nduja assieme alla cipolla
di Tropea. Più leggeri sono i piatti a base di agnello e capretto, cotti al
forno, in umido e alla brace.
Tra i pesci, pur con tanto mare a disposizione, trionfa lo
stoccafisso del Nord Europa orma naturalizzato da secoli con il nome di “Stocco”. Quello alla mammolese è cotto in
umido con con salsa di pomodoro,
cipolle, patate, olive in salamoia e peperoncino. Si prepara anche con i
funghi, con i fagioli, al forno, arrostito sulla brace e perfino crudo,
marinato nel limone, con sale e prezzemolo.
Non manca però il pesce fresco specialmente il pesce azzurro
e soprattutto lo Spada nel reggino dove viene arrostito e bagnato con
salmoriglio, una semplice salsa fatta con olio, limone sale, pepe e prezzemolo
o origano; oppure alla ghiotta, in umido con pomodoro e olive.
Molto interessante e dietetica la preparazione dello Stocco
alla bagnarota, cotto a bagnomaria con olio, limone, origano e capperi.
Numeroso è l’elenco dei dolci tradizionali quasi tutti
votivi e quindi preparati per le feste religiose. Tra i tanti segnaliamo gli ‘Nzuddi o Mostacciuoli,
celebrativi di eventi speciali come fidanzamenti e matrimoni oltre che
devozionali e immancabili nelle feste patronali. Sono biscotti non lievitati
fatti con farina e miele, tipici
delle feste patronali hanno svariate forme, a cesto, cuore, bambola, pesce, cavallo e altri
ammali. Quando sono usati come ex voto prendono la forma di questi.
La
Pitta ‘mpigliata o Pitta ‘nchiusa di San Giovanni in Fiore è un rotolo di pasta
farcito e tagliato “a girella” ripieno di uva passa, gherigli di noce, pinoli,
mandorle, cosparsa di miele o irrorata con liquore.
La
Giurgiulèna è
un torrone che si fa a Natale con sesamo e miele. Natalizi sono anche i
Turdilli, gnocchetti di pasta fatta con farina e vino, fritti e cosparsi di
miele.
La Varchiglia alla monacale, tipica di Cosenza si deve alle Carmelitane scalze: un guscio di pasta frolla a forma di barchetta contiene un morbido ripieno di mandorle, zucchero e cioccolato.