ll nome Monte Marino descrive la topogrfia del paese su un altopiano degradante verso il mare. In alto, a circa 300 metri di altitudine, c’è il “monte” con la sua gente di campagna. In basso c’è il piccolo porto peschereccio abitato da pescatori e marinai e a mezzacosta il centro del paese, con il municipio, la caserma dei carabinieri, la pretura, la chiesa matrice e tutto quello chi vuole. Tutta questa zona è chiamato “la piazza” e i suoi abitanti “piazzaioli” che, in questa stratificazione sociale verticale, solo la classe dominante composta dai professionisti e da quel paio di aristocratici he ormai conosciamo. La maestranza è sparsa sui tre livelli perché tutti hanno bisogno di sarti, falegnami fabbri e muratori. Al tempo della nostra storia, ma un po’ anche adesso, I tre gruppi facevano vita quasi del tutto separata perché ciascuno era portatore di una cultura profondamente diversa dalle altre con il risultato che Monte Marino era come tre paesi in uno, con tre piazze, tre caffè, e tre chiese.
Sull’altopiano, i contadini giornatari convivevano con i mezzadri e i borgesi, che non sono i borghesi – quelli stavano in piazza – ma i piccoli proprietari terrieri che lavorano la terra in proprio. Di solito, i loro possedimenti non superavano da decina di salme, ma non c’è situazione senza eccezione e quella dei borgesi di Monte Marino si chiamava Fofò Galia, proprietario di terre degne del feudo di un principe.
Il Palazzo dei Palmera sorgeva, e tuttora sorge, sul lato corto della piazza Duomo dominata dalla chiesa matrice. Come un gigantesco belvedere, la grande spianata di basole si affaccia quasi a strapiombo sulla marina e sembra fatta apposta per invitare i montemarinesi a guardare il mare e girare il culo ai contadini, su in alto, i meno considerati nella scala sociale.
Quella dei Palmera era ormai considerata nobiltà cittadina. Il padre di Pia, don Alfonso, si era trasferito a Palermo quando sposò Concita, l’unica figlia dei marchesi Grisafi, una palermitana di tutto punto che mai e poi mai avrebbe lasciato la sua città per finire in un paesino sulla costa meridionale della Sicilia. Il trasloco di Alfonso consistette nel trasferimento di una valigia con le sue carte più importanti. Il guardaroba rimase dov’era perché secondo Concita andava rinnovato dal cappello alle scarpe. Però ci fu una trattativa che diede qialche concessione allo sposo: il Palazzo, alla morte del Marchese Grisafi si sarebbe chiamato Grisafi – Palmera e la cappella gentilizia sarebbe stata quella di Monte Marino.
La forte divisione tra la gente di Monte Marino, fu il camo dove si dimostrò l’intelligenza di Ninetta. Ognuno dei tre quartieri poteva andare dietro al suo santo finché voleva, ma di cimitero ce n’era uno solo e ci andavano tutti dal 25 di ottobre al 2 novembre prima per pulire e poi per esibire il risultato di tanta pulizia. I Un giorno una, un giorno l’altra, le tre sorelle Scozzari prendevano la strada del camposanto per lucidare il marmo e soprattutto per eseguire la volontà di Pia Palmera. Ninetta cominciò con Mimma Soldano detta “Il Giornale di Sicilia”. Percorse tutto il viale principale, prese l’ultima traversa laterale e giunse al portico delle colombaie. Vide subito Mimma che stava inginocchiata a culo in aria davanti alla lapide dei genitori collocata quasi raso terra. Lucidava con il Sidol le lettere della scritta in ottone cromato sotto le foto dell’anziana coppia e appena si accorse che Ninetta era dietro di lei, disse senza salutarla:
– Com’erano belli!
– Bellissimi – confermò Ninetta – sembra che parlano.
– Ma parliamo di cose allegre. Come sta la piccolina? In paese dicono che donna Pia non l’allatta perché ha paura di sciuparsi le minne e che la bambina succhia da tua sorella Rosetta…
– Se la gente stesse a culo a ponte a pulire i pavimenti di casa sua come stai facendo tu con quella tomba, gli passerebbe la voglia di sparare minchiate.
– Allora la baronessa allatta? Tu l’hai vista con i tuoi occhi?
– Te lo posso giurare pure con l’ostia in bocca. Sono io l’aiuto e le lavo e le stiro i fazzoletti di batista sporchi di latte. Ha un corredo di camicie da allattamento che dovresti vedere.
– Eh, il latte della mamma è tutta un’altra cosa. Specialmente con una bambina nata debole…
– Mimma, guarda che Stella è nata di quattro chili.
– Un miracolo per una settimina…
Seguì un momento di silenzio che sembrò lunghissimo a entrambe, con Mimma che non capiva dove l’altra voleva andare a parare e Ninetta che in extremis si chiedeva se fosse veramente il caso di eseguire l’ordine della sua Piuzza. Poi tirò un respiro e disse in un fiato:
– Mimmù, te lo dico come in confessionale, ma tu non devi dirlo a nessuno.
– A nessuno, Ninè, non lo dirò a nessuno. Che ci fu?
– Ci fu che Stella…
– Che Stella?…
– …A nessuno, Mimmù…
– A nessuno, Ninè, a nessuno…
– Ci fu che Stella è nata normale, di nove mesi finiti!
– Ma che mi dici… dopo sette mesi di matrimonio. Questa è grossa…con lei vestita di bianco… Eh, ma sono cose che capitano.
In quel momento si presentò Sarina Cucè, un’altra bella lingua affilata come la sciabola di un corazziere.
– Stavamo dicendo quanto sono belli i miei genitori in queste fotografie – disse subito Mimma
– Bellissimi – commentò Sarina – sembra che parlano.
– Vi voglio la buona salute – si congedò allora Ninetta. Aveva obbedito all’ordine della sua padrona ma, con tuti gli sforzi, non riusciva a capire perché mai l’avesse dato. Per farsi perdonare quel peccato dal confessore? No, lei in chiesa ci andava solo quando le diceva la testa e non era proprio il tipo da dare retta ai preti. Solo di una cosa era sicura: che Piuzza aveva avuto le sue buone ragioni e l’importante era avere eseguito l’ordine come meglio non poteva. Le due commari, e quindi il paese, era stato informate ma sentiva che la missione, in fondo, non era veramente compiuta. Doveva consegnare una comunicazione speciale che non poteva essere data sul terreno consacrato di un cimitero. Molto meglio la bottega della gnura Gnazia la gazzosara, un bugigattolo squallido ma piazzato in pieno centro, sul corso.
La comunicazione personale toccava a Brasa la Cacafemmine che, sempre per via sempre di tutte quelle figlie da sposare, dal giorno del fidanzamento di Pia e Guglielmo sputava veleno sui due giovani e i loro casati. Ninetta era esasperata da quell’odio irragionevole e non appena percepì che la maggioranza del paese era stata ormai informata del segreto di donna Pia, organizzò la trappola.
La ‘gnura Brasa aveva il vizio delle gazzose. Non c‘erano santi: ogni giorno, alle dieci in punto, con la pioggia o con il sole, si presentava nel bugigattolo di Gnazia la gazzosara e ne comprava una da mezzo litro che non portava a casa per non dividerla con le figlie. Invece se la beveva lì sul posto e ne approfittava per sentire le novità da Gnazia che, col negozio in quella posizione, sapeva tutto di tutti, contadini, marinari o nobili che fossero.
A Ninetta bastò andare da Gnazia alle dieci meno cinque e aspettare prima Brasa e poi la sua provocazione. La vittima si presentò puntuale alle dieci. Si diede il tempo di togliere la biglia di vetro che faceva da tappo al suo elisir e di berne a collo un unico, lungo sorso. Giusto il tempo di un altrettanto lungo rutto e partì all’assalto di Ninetta.
– Che dicono i baroni, Ninè? – ridacchiò euforica neanche la gazzosa l’avesse ubriacata- è vero che Stella è nata di nove chili dopo quattro mesi? Scusa mi sono confusa, ma con tutti questi numeri che escono dal Palazzo si perde il conto che neanche alla tombola. Prima erano sette mesi, poi sono diventati nove… Si dice anche che la baronessa sta allattando con le sue nobili minne… Non si spaventa di sciuparsele?
Ninetta taceva. A quel punto sarebbe stato un gioco da ragazzi prenderla per i capelli e darle il fatto suo. Ma Gnazia la gazzosara non poteva essere l’unica testimone, così si avvicinò alla porta come per andarsene. Brasa la seguì. Non le pareva vero di trovarla così docile e decise di rincarare la dose.
– Che, ti sei mangiata la lingua Nine’? Eppure non dovresti patire la fame. Si vede bene che il tuo padrone ti mantiene bella in carne.
Ninetta tacque ancora, ma a quel punto era già sul marciapiede. Brasa la raggiunse.
– Eh sì! E’ stato furbo don Guglielmo Scuderi a mettersi in casa le tre sorelle Scozzari. Le mantagnesi sono nominate per esse serve perfette in tutto e per tutto. Specialmente ora, con la Baronessa che ha partorito da poco, ci pensate voi ad accontentarlo.
Un urlo disumano di Ninetta fece tremare le bottiglie di gazzosa di tutto il bugigattolo:
– Grandissima buttana di caserma, tu e quelle schiette vecchie delle tue figlie brutte come la fame!
Con una manata che sembrò la zampata di una pantera, le guastò la crocchia, afferrò la lunga trecca e la trascinoò sul marciapiede come una bestia al macello. Non le risparmò nulla. Alla gente che cresceva fino a diventare una folla denunciò con urla terrificanti tutte le sue malefatte e gli scandali più vergognosi della sua vita.
Brasa durante la guerra faceva il mercato nero e non c’era montemarinese che non sospettasse di intrighi con i tedeschi prima e con gli americani dopo. Storie di contrabbando coperto grazie alle spiate, e forse anche di sesso, con il marito prigioniero in Inghilterra. Si diceva anche che nessuno volesse le sue figlie perché qualcuna erano stata coinvolte nei traffici della madre. Segreti di pulcinella, in fondo, ma spiattellati uno dietro l’altro era come se ricevessero il battesimo della verità.
Alla fine della lite non si poteva dire se a Brasa dolesse le più la testa per via di tutti quei capelli rimasti nella mano di Ninetta o il cuore che sentiva trafitto come quello dell’Addolorata.
Quanto a Ninetta, da quel momento fu chiamata “la torera” ricevendo con quel soprannome una specie di cittadinanza onoraria di Monte Marino.