di Patrizio Roversi
Quando mi chiedono “quale è il posto più bello del mondo” non so mai cosa rispondere. Ma quando mi chiedono “quale è la cucina più buona del mondo” non ho dubbi: la siciliana! Innanzitutto in Sicilia il clima e la terra producono materie prime eccellenti. Poi, in Sicilia, in 25 secoli di storia, sono passati tutti: Greci, Romani, Arabi, Bizantini, Normanni, Angioini, Aragonesi, Borbonici, Piemontesi e poi Spagnoli e Francesi che hanno lasciato tracce profonde ancora oggi evidenti nella cucina di tutti i giorni. A differenza di altre regioni (come la Calabria o la Sardegna), l’isola non si è chiusa alle influenze esterne, ma anzi le ha metabolizzate, trasformate, sintetizzate. La Sicilia, da vari punti di vista, è una grande spugna che assorbe e poi restituisce.
Altro grande merito della cucina siciliana è il rispetto delle materie prime. Mette in grande evidenza gli ingredienti in tutta la loro bontà, li rispetta e li porge spesso quasi in purezza (a differenza di altre cucine “nordiche” come l’emiliana o la piemontese), ma allo stesso tempo li combina in modo assolutamente vario e fantasioso. E poi è una cucina storicizzata e sociale, cioè risente e quindi racconta di un contesto economico e politico, accostando una cucina ricca ad una povera, cucina dei signori e del popolo.
Ho cercato, sia pure con molta approssimazione, di mettere a fuoco i temi di questo libro, che continua e completa il discorso enogastronomico di Martino Ragusa, racchiuso nei suoi precedenti libri, e diffuso suo suoo blog e i suoi canali social. Ragusa più che mai in questo caso conferma di essere il Nuovo Artusi. Non è un’iperbole, né una captazio benevolentiae. Ragusa (come Artusi, che però aveva bisogno della manualità della sua cuoca Marietta) è innanzitutto uno che sa e ama cucinare. Uno pratico che non teme di sporcarsi le mani in cucina. In questo libro ci sono appunto 216 ricette siciliane, tradizionali e innovative, cioè rifatte tradizionalmente e filologicamente e anche re-inventate, a conferma che la cucina è cosa viva. Martino le ha sperimentate direttamente tutte, poi le ha fotografate e descritte. E noi possiamo a nostra volta provare a rifarle, perché la descrizione degli ingredienti e delle preparazioni è chiara, diretta, utile.
Ma non è finita qui: questo libro è come un cannolu (cannolo) siciliano. Fate finta che le ricette siano il ripieno, fatto di ricotta e canditi. Ma attorno al ripieno c’è la cialda, o scorcia. Che tiene assieme tutto, in termini di sapore viene prima-durante-dopo il ripieno stesso, e soprattutto è la cosa più complessa. Nella cialda del cannolo ci sono farina, zucchero, strutto, sale, caffè, cacao, bicarbonato, uovo, aceto e marsala. E nella cialda “letteraria” con cui Martino presenta le sue ricette ci sono storia, antropologia, filosofia, linguistica, agronomia, medicina, chimica, sociologia e persino geografia. Fuor di metafora: nel libro c’è una prefazione – coltissima ma leggera – con la quale Martino chiarisce il contesto e il significato della cucina siciliana. E poi, prima di ogni ricetta, c’è immancabilmente qualche riga sulla sua specifica storia, sulla sua provenienza. Il tutto amalgamato in salsa letteraria assolutamente digeribile, divertente. Se Artusi scriveva “La Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, Ragusa ci regala un trattato che aggiorna decisamente il concetto di “scienza gastronomica” aprendolo a considerazioni che vanno dalla storia antica alle nuove mode (come ad esempio l’uso del pistacchio nelle preparazioni salate). E l’arte di mangiar bene, cioè lo sforzo di mettere assieme un ricettario completo, non manca certamente. Ma quello che balza all’occhio – e che Martino sostiene e dimostra fin dalle prime righe – è che la cucina siciliana non è una cucina regionale, bensì nazionale. Perché unitaria, con una personalità fortissima e inconfondibile e con un enorme patrimonio di ricette alcune delle quali conosciute in gran parte del mondo.
E lo sguardo di Martino (nato ad Agrigento e vissuto decenni a Bologna, e che prima di dedicarsi a tempo pieno alla gastronomia ha fatto lo psichiatra, lo scrittore e l’autore televisivo) non è certo quello del paladino provinciale e nostalgico della propria terra natale, bensì quello disincantato del viaggiatore, che dopo averne assaggiate di cotte e di crude, trova la sua sintesi fra personale e generale, fra locale e globale, fra la cucina di casa sua e il salotto (buono) della cucina italiana.
Patrizio Roversi