Capitale fin dal giorno della sua fondazione, Roma dovrebbe avere una cucina aristocratica e ricercata. Invece no. Avvezzi alla presenza incombente dei potenti, stimolati da un carattere disincantato e tagliente, i romani hanno percorso la strada dell’opposizione, sventolando il vessillo di una semplicità lievemente anarchica e pesantemente nemica dei fasti di corte. Ecco dunque una cucina ostentatamente popolare, anzi popolana, impegnata a ribadire la propria semplicità proletaria e laica contro il gusto infiocchettato dei potenti. Una cucina sommessamente rivoluzionaria e dichiaratamente ironica, come i versi di Pasquino, e che nell’impeto della dissacrazione si è lasciata andare a una certa approssimazione disordinata e caciarona.
In uno stato governato dal Papa, la cucina di contestazione non poteva che essere l’ebraica, anticlericale per definizione. E ancora oggi la cucina giudea è forse la più importante e genuina custode della tradizione gastronomica romana. Stimolati dal forte attaccamento alla loro etnia e fedeli alle loro tradizioni religiose così connesse con l’alimentazione, i ristoratori ebrei del Portico di Ottavia e delle stradine attorno alla Sinagoga rimangono i veri custodi della più antica tradizione capitolina. Andate a trovarli: vi offriranno i carciofi alla giudea, le celebri “mamme” romane trasformate in meravigliosi fiori ambrati e croccanti e le trigliette fredde con l’uvetta e i pinoli. Ma prima ancora vi proporranno l’antica pasta e broccoli col brodo di pesce. Il pesce canonico per questo piatto è l’arzilla (razza), il formato giusto di pasta è lo stortino, sorta di tubetti ricurvi che i romani in verità chiamano “cazzetti d’angelo”, e che cito a dimostrazione di quanto sostenevo a proposito di ironia e irriverenza.
Parlando di cucina romana, comunque, il pensiero corre subito agli importantissimi contributi portati dagli antichi immigrati abruzzesi, intimamente legati a Roma e alla sua tavola dalla notte dei tempi. Amatrice, patria dell’amatriciana, oggi è un comune del Lazio, ma una volta era in Abruzzo. La sua emigrazione da una parte all’altra del confine sta quasi a dimostrare che gli scambi tra le due regioni sono talmente stretti da non limitarsi agli abbacchi e al pecorino, ma sono arrivati al punto di coinvolgere intere città. Romanizzata e parzialmente fusa con la cucina ciociara, quella abruzzese è diventata la “cucina burina” (dal burro, proveniente anch’esso dai monti della Laga e dal gran Sasso) e si è posta a fondamento della più autentica tradizione romana. Trionfo della cucina burina sono gli spaghetti all’amatriciana, da preparare secondo le direttive della Pro Loco di Amatrice con olio di oliva, guanciale, vino bianco secco, pomodoro, peperoncino e pecorino. Parenti stretti di questo piatto gli spaghetti (o anche i rigatoni) alla gricia (o alla marchiciana) preparati come l’amatriciana ma in bianco, con l’esclusione del pomodoro. Dalla doppia fonte abruzzese-ciociara provengono anche i rigatoni col sugo di pecora, la pasta con i ceci profumata di rosmarino e i calascioni, calzoni ripieni di pecorino, uova, bietole e verdure selvatiche. Le erbette di campo che farciscono i calascioni sono le stesse che prendono il nome di misticanza quando, in primavera, sono consumate a tonnellate dai romani, crude in insalata, come contorno ideale dell’abbacchio a scottadito.
E’ proprio l’agnello (“abbacchio” in tutto il Lazio) il sovrano assoluto della cucina burina. Se avete fortuna, lo potete trovare eccellentemente preparato nelle sue ricette tipiche “da trattoria”: in umido con i carciofi e al forno alla romana. Non dimenticate neanche le costolette, che vi proporranno cotte velocemente alla griglia e da mangiare caldissime a “scottadito”, oppure impanate e fritte assieme ai carciofi impastellati. Oltre che dall’ebraica e dalla burina, la cucina tradizionale romana è sostenuta da altre colonne gastronomiche di uguale importanza: la macellara e la cittadina.
Cucina macellara è sinonimo del famoso “quinto quarto”. I quarti di una bestia non possono essere più di quattro, è così in tutto il mondo, ma non a Roma, dove tutto è plausibile, possibile, opinabile, persino la matematica. Dove finiscono i quattro quarti muscolari della bestia da macello, quelli ben magri e graditi al nostro gusto attuale, comincia la festa romana del quinto quarto, cioè di tutti quegli scarti di macelleria che fanno rabbrividire i fans della paillard magra e gioire i trasteverini come delle Pasque. La pajata è intestino tenue di vitello o di agnello ancora pieno del suo contenuto di chimo. Si mangia arrosto o al sugo di pomodoro, con i rigatoni, sotto una valanga di pecorino. Le animelle sono le ghiandole linfatiche e il timo dell’animale vivo. Dopo la macellazione, diventano le protagoniste del fritto misto alla romana, assieme ai carciofi e alle cervella. La coda del bue sapete tutti cos’è, ma meglio di voi la conoscono di certo i regolanti, gli abitanti del quartiere Regola, sulla riva sinistra del fiume, di fronte a Trastevere. Pensate che sono chiamati “magnacode” per la loro devozione alla coda alla vaccinara, se volete gustare questa specialità, ora sapete dove cercarla. Se non vi vengono i brividi, posso dirvi che la rassegna delle specialità dal quinto quarto prosegue con la milza, i rognoni, i torcioli (pancreas), i granelli (testicoli), gli schienali (midollo spinale), la coratella (insieme dei visceri toracici dell’agnello). Anche al quinto quarto del pollo sono riservati grandi onori. Le rigaglie sono l’ingrediente fondamentale del sugo per le fettuccine alla romana e costituiscono il ripieno dei supplì di riso secondo la ricetta più antica.
Più moderni sono i famosi supplì al telefono, così chiamati perchè‚ la mozzarella (provatura nel Lazio) di cui sono ripieni fila durante la degustazione e il filo tra bocca e supplì dovrebbe ricordare quello del telefono. A chi ama il maiale ricordo che appena fuori porta, ai Castelli, si celebra a ogni ora l’imperdibile rito del panino con la porchetta. La semplicità popolana: gli spaghetti e i dolci L’ultimo pilastro della cucina romana è quello squisitamente cittadino legato all’amore per gli spaghetti e nato nelle trattorie del Testaccio, di Trastevere, dei Rioni Monti e Regola. Spaghetti alla checca (con pomodoro crudo e semi di finocchio), cacio e pepe, all’aglio olio e peperoncino, alle alici, alla carrettiera, alla carbonara, queste le specialità del filone “spaghettaro”, l’acquisto più recente della complessa tradizione romana. E non poteva che essere così. Più di qualsiasi altra pasta, gli spaghetti rispondono al requisito che la cucina romana, pur nella complessità della sua storia, ha sempre richiesto a un piatto: la semplicità popolana.
Così è anche stato per i dolci, tutti semplici, proletari, quasi umili. Dal pan di Spagna inzuppato nel liquore e coperto di crema (zuppa Inglese alla romana), alle ciambellette impastate col vino, al pangiallo romano, un semplice pane dolce parente lontano e povero di quelli elaboratissimi del nord Italia. I dolci romani, semplici e veloci, fin troppo rustici per il gusto italiano, sono rimasti discretamente nascosti nelle case, nelle poche trattorie autentiche rimaste e nelle pasticcerie più popolari. Tutti, tranne il più umile, che ha conquistato notorietà nazionale a dispetto della sua austerità, è il maritozzo o quaresimale, che dichiara tutta la sua austerità già nei sui nomi: era il regalo che i fidanzati (da cui “maritozzo”) donavano alle future spose per addolcire il mesto periodo della Quaresima”. E ci riuscivano, se è vero che le fidanzatine li gustavano innaffiandoli con i vini bianchi dei Castelli, così delicati e tanto beverini da riuscire a distogliere le fanciulle dalla mestizia dei giorni di Passione.