Negli anni ottanta – quindi più recentemente di quanto si è portati a pensare – in Italia è avvenuta la scoperta del territorio che ha portato alla conoscenza, valorizzazione e circolazione dei nostri innumerevoli prodotti di nicchia e dei piatti preparati con questi ingredienti. Ne è conseguita un’espansione mentale dell’idea di territorio che dalla dimensione locale si è espanso fino a quella nazionale. Dopo lo smisurato successo – complice la tv – di formaggi e formaggini industriali uguali a Tarvisio come a Pantelleria, di salamini standard, di carni in scatola e dadi da brodo, è arrivato il momento del manufatto artigianale, spesso con il nome di un luogo nella denominazione. Il prodotto locale ha cominciato a circolare, essere conosciuto, usato e apprezzato anche lontano dal posto di origine, è cioè diventato contemporaneamente locale e globale, “glocal” secondo la definizione di Russel Robertson. Occorre però specificare che si tratta di una mini-globalizzazione perché il“globale” cui ci si riferisce è delimitato dai confini italiani. È così anche ridimensionato il falso mito del chilometro zero che, al di là di ottusi integralismi, andrebbe anch’esso identificato con tutto il territorio nazionale. Filiera corta sì, consumo locale sì, ma fin quando è possibile e con giudizio. Vorremmo forse negare il parmigiano reggiano ai siciliani che, fra l’altro, l’hanno inserito da più di secolo in alcune delle loro più note preparazioni? Le arancine di riso sono un esempio nobile e lampante.
Ormai i cuochi meridionali usano molto volentieri la pasta fresca all’uovo di tradizione settentrionale, il riso della Lombardia e l’aceto balsamico tradizionale di Modena e Reggio Emilia. Ovviamente questi prodotti vengono coniugati (si auspica dopo un coscienzioso lavoro di ricerca) a quanto offre il sud. Allo stesso modo, i loro colleghi del nord hanno cominciato a usare la pasta di grano duro artigianale, i caciocavalli, le bottarghe di muggine e di tonno, i ricci di mare, il sale marino delle saline trapanesi. Anche i metodi e gli strumenti di cottura sono entrati virtuosamente in un circuito di scambio: al sud sono state scoperte le virtù della pietra ollare, al nord le cotture lentissime in olio extravergine di oliva.
I cuochi italiani più o meno consapevolmente impegnati in questa grande operazione sembrano riprendere con i fatti l’opera di Pellegrino Artusi che nel suo “Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” del 1891 realizzò la prima sintesi della cucina italiana.
L’”Artusi” è un vero e proprio tentativo di formulazione di una cucina nazionale fondar sullo scambio interregionale senza il sacrificio delle identità locali. Proprio quello che noi auspichiamo adesso, riprendendo il discorso là dove si era interrotto con l’intento di renderlo il più possibile completo e di colmarne le tante lacune. l’Italia unitaria rappresentata dalle ricette di Artusi, infatti, è pesantemente parziale: ha per epicentro un triangolo tosco – emiliano – romagnolo i cui vertici sono Bologna, Firenze e Forlimpopoli e si estende solo alle città che il gastronomo romagnolo conobbe viaggiando in diligenza o con il treno. A nord fino a Trieste e Torino, a sud fino a Napoli. Nel libro non figurano ricette di Marche, Abruzzo, Puglia, Basilicata, Calabria, Sardegna, né vengono citate tali regioni. E’ un’Italia con un sud che si ferma a Napoli, con l’eccezione della Sicilia che compare con tre piatti. E’ chiaro che bisogna completarla, molti cuochi italiani stanno dando il loro contributo. Con il contributo di cucinere e cucinieri domestici.