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Storia e identità della pizza siciliana

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La cucina italiana annovera diversi impasti lievitati, fatti con farina di frumento o di altro cereale, cotti al forno e variamente conditi. Sono le focacce, distinte in due grandi famiglie: le rettangolari cotte in teglia, e le rotonde (o anche ovali) cotte sul pavimento del forno a legna. Queste erano note già ai Romani (il nome deriva dal tardo latino focacia, da focus), ed è ad esse che ci riferiremo d’ora in poi parlando di focacce.

Nel corso del tempo, in tutta Italia sono state apportate variazioni all’antica focaccia romana che però, nella sua essenza, è rimasta fondamentalmente un pezzo di pasta di pane schiacciato e cotto al forno. Tra le principali ricordo la pitta calabrese, la ciaccia toscana, la schiacciata siciliana, la sardenaria (o pissadella o pissalandrea) ligure.
La varietà di focaccia che si è differenziata a Napoli ha preso il nome di pizza ed è stata la più fortunata di tutte, tanto da raggiungere una notorietà universale.  La pizza moderna ha dunque un’indubbia origine napoletana ed è con essa che devono fare i conti tutti i prodotti da forno che recano questo nome.

Dall’antica focaccia alla pizza moderna

L’esatta sequenza dei passaggi che conducono dall’antica focaccia alla pizza moderna non è perfettamente nota ma è ricostruibile con buona approssimazione.
Le focacce antenate della pizza erano (e sono tuttora) insaporite con solo olio. Man mano, intervennero altri ingredienti variamente associati tra loro: pepe, strutto, lardo, ciccioli di maiale, acciughe o sarde salate, latticini, formaggi di vario tipo, pomodoro, origano, rosmarino, basilico. È stata la fortunatissima combinazione di pomodoro, mozzarella e basilico a dare origine alla pizza moderna. La napoletana, appunto.
A questo proposito, può essere utile notare che fino alla prima metà degli anni ’50 del secolo scorso le pizzerie si trovavano solo a Napoli, con l’eccezione del ristorante A Santa Lucia di Milano, aperto da un modenese appassionato di pizza napoletana nel 1929.

La prima pizzeria di Napoli (e quindi d’Italia e del mondo) fu l’Antica Pizzeria Port’Alba, ancora oggi attiva, che aprì nel 1738. Prima, la pizza era preparata in casa e venduta per strada dagli ambulati quasi esclusivamente a gente del popolo. Non ci sono dubbi che la prima pizza offerta dalla pizzeria Port’Alba fosse quella alla mastunicola, condita con strutto, formaggio e basilico (senza pomodoro), una tappa fondamentale nel processo di transizione dalla focaccia alla pizza moderna. Ricordo a chi volesse assaggiarla che è ancora preparata del ristorante Umberto a Napoli, in via Alabardieri.

Un’importante testimonianza sulla nascita della pizza è data nientemeno che da Alexander Dumas padre che nel Capitolo VIII de Il Corricolo (4 volumi pubblicati dal 1841 al 1843) scrive: “a Napoli la pizza è aromatizzata con olio, lardo, sego, formaggio, pomodoro, o acciughe sotto sale“.
Secondo la vulgata, la pizza margherita è stata creata dal panettiere Raffaele Esposito – detto Naso ‘e cane – impiegato presso la pizzeria Pietro… e basta, ancora oggi attiva con il nome di Brandi.  Secondo quella che ormai è confermato essere una leggenda, nel 1889 l’Esposito avrebbe ideato una pizza con i colori del tricolore (pomodoro, mozzarella e basilico) per dedicarla alla regina Margherita di Savoia, moglie di Umberto I re d’Italia, in visita a Napoli, chiamandola “margherita” in suo onore. In verità una pizza denominata “margherita” era già conosciuta a Napoli e pare che il nome fosse dovuto alla disposizione a corolla di fiore delle fette di mozzarella.

D’altra parte, una pizza molto simile alla margherita viene descritta nel 1849 dall’erudito napoletano Emmanuele Rocco nell’opera “Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti”

diretta da Francesco de Boucard. Scrive il Rocco: «le pizze più ordinarie, dette coll’aglio e l’oglio, han per condimento l’olio, e sopra vi si sparge, oltre il sale, l’origano e spicchi d’ aglio trinciati minutamente (e l’immancabile pomodoro). Altre sono coperte di formaggio grattugiato e condite collo strutto, e allora vi si pone disopra qualche foglia di basilico con delle sottili fette di muzzarella. Talora si fa uso di prosciutto affettato, di pomidoro, di arselle, eccetera. Talora ripiegando la pasta su se stessa se ne forma quel che chiamasi calzone».
Tanto veniva pubblicato nel 1849, quindi 40 anni prima della leggendaria invenzione di Raffaele Esposito.

Va a questo punto ricordato che Il 9 dicembre 2009 l’Unione Europea, rispondendo a una richiesta del Parlamento Italiano, ha concesso la denominazione di Specialità Tradizionale Garantita (STG) a tutela della pizza napoletana nelle due varietà Margherita e Marinara.

Il regolamento n. 97/2010, riportato nella Gazzetta Ufficiale del 5 febbraio 2010, riporta testualmente al punto 3.8 dell’Allegato II: “Le pizze più popolari e famose a Napoli erano la “marinara”, nata nel 1734, e la “margherita”, del 1796-1810, che venne offerta alla regina d’Italia in visita a Napoli nel 1889 proprio per il colore dei suoi condimenti (pomodoro, mozzarella e basilico) che ricordano la bandiera dell’Italia.

Offerta alla regina d’Italia, dunque, non creata per lei.

Il decennio che vide la diffusione della pizza nel territorio italiano fu quello che va dal 1955 al 1965, gli anni dell’emigrazione dal meridione verso le grandi fabbriche del settentrione. Ma la pizza prese anche la via del sud e per quanto riguarda la Sicilia, la prima pizzeria ad aprire a Palermo fu la Bellini, nel 1955 nei locali dell’omonimo teatro. È tutt’ora attiva.  Va notato che, a quanto riferisce l’attuale gestore, il suo primo pizzaiolo fu mandato dal proprietario del tempo a Napoli per apprendere i segreti del mestiere.
Paradossalmente, prima ancora che nel resto d’Italia la pizza si diffuse nei grandi città degli Stati Uniti, soprattutto New York, Chicago e San Francisco, dove fu importata dai tanti napoletani laggiù emigrati. Così, la celeberrima pizza-pie deliziava il palato e dava qualche sollievo alla nostalgia degli italo-americani già nella prima metà del ‘900. A proposito, basta pensare che la pizza è celebrata nella canzone “That’s amore” portata al successo da Dean Martin nel 1952, quando evidentemente la pizza era già un’affermata star della gastronomia americana.
Ricordo l’attacco del refrain: When the moon hits you eye/ like a big pizza pie /

That’s amore.
(Quando la luna colpisce il tuo occhio/come fosse una grande di pizza/questo è amore).

La pizza siciliana

A differenza della napoletana, la pizza siciliana non ha una sua ricetta codificata,

I miei studi mi hanno portato a concludere che si può considerare un ibrido tra due preparazioni: la schiacciata e la pizza napoletana. Chiarisco che questa mia affermazione è dettata, oltre che dalle testimonianze e dai pochi documenti disponibili, dall’osservazione delle caratteristiche del prodotto studiato e dalla sua contestualizzazione storica. Se attentamente “lette” e ben suffragate da testimonianze, le ricette sono paragonabili a veri e propri documenti.

La schiacciata siciliana è diffusa intutta la Sicilia con vari nomi: muffulettu, cabucio, cudduruni, fuazza.  Ai diversi nomi corrispondono altrettante varianti tutte però molto simili tra loro. Si tratta di una focaccia molto semplice, ottenuta spianando con le mani una palla di pasta di pane fino a darle la forma di disco la cui superficie viene lasciata integra (cabucio) o incisa da un taglio a croce (muffulettu) oppure cosparsa di fossette impresse con le dita (scacciata). Quando la panificazione era ancora domestica, la scacciata veniva cotta velocemente sul pavimento forno dopo che era stato ripulito dalle braci per fare posto al pane. Era cotta tal quale e poi veniva tagliata a metà per essere condita con olio di oliva e sale (ma anche pepe, acciughe o sarde salate, pecorino, caciocavallo, ricotta). Oppure era condita in superficie prima della cottura dopo che erano state praticate le fossette (pani cull’occhi cavati). Gli ingredienti erano diversi e variamente combinati tra loro: olio, fettine aglio, pepe, pezzetti di acciuga o sarda salata, cipolla, formaggio pecorino grattugiato, dadini di caciocavallo, origano.
L’altra progenitrice è la tabisca saccense, una variante locale della pizza siciliana nata, come le sue consorelle, indipendentemente dell’influenza napoletana.
In Sicilia, ricordo, si contano più tipi di pizza locale. Per citarne solo alcune, la fuata nissena (pomodoro, aglio, sarde salate, pecorino grattugiato, origano, olio, sale, pepe); la rianata trapanese (pomodoro, aglio pestato o affettato, sarde salate, pecorino grattugiato, abbondante origano, prezzemolo tritato, olio, pepe); la facci di vecchia madonita (pomodoro, caciocavallo stagionato, cipolla, sarde salate, pecorino fresco, origano, pangrattato, olio, pepe nero).

Profilo tecnico della pizza siciliana e confronto con la pizza napoletana

Le concordanze tra le due specialità sono poche ma fondamentali. Come la napoletana, la pizza siciliana sviene cotta in un forno a legna portato a temperatura molto alta, tra i 450 e 500 gradi centigradi; l’impasto è spianato a mano, senza l’uso di mattarello né di altri mezzi meccanici, il diametro non supera i 35 centimetri mentre lo spessore al centro spesso supera i 4 (±1) millimetri della napoletana. In entrambe viene usato lievito di birra in modeste quantità, meno di 5 g/kg. Da qualche tempo la pizzeria Quelli di Piana Grande usa lievito madre.


Più numerose sono le differenze. Queste le principali:

Farina. La pizza napoletana è fatta con sola farina 00. Nella pizza siciliana la farina 00 è sempre mescolata con semola rimacinata di grano duro in proporzioni variabili dal 10% fino al 50 %.

Idratazione. La quantità d’acqua è inferiore nella pizza siciliana che presenta un impasto più compatto.

Tempi di lievitazione e maturazione. La lievitazione è un processo di trasformazione dell’amido durante il quale si sviluppa gas carbonico con notevole aumento del volume dell’impasto. La maturazione è il processo di modificazione della struttura del glutine con formazione della maglia glutinica attraverso numerosi microprocessi enzimatici. I tempi di maturazione sono più lunghi di quelli di lievitazione ed entrambi variano con le condizioni ambientali: temperatura e umidità dell’aria, temperatura dell’acqua, tipo di farina usato e eventuale aggiunta di zucchero e grassi.  I panetti per la pizza siciliana sono formati direttamente dall’impasto principale e posti a maturare per 4 ore. A Napoli prima viene fatto maturare l’impasto principale per 2 ore, dopo vengono fatti i panetti che vengono posti a maturare per altre 4-6 ore (doppia lievitazione).

Tempi di cottura. Per disciplinare, la pizza napoletana deve cuocere in 60-90 secondi. I tempi della siciliana tendono ad allungarsi perché è gradita una pizza croccante e più cotta.

Croccantezza. La pizza napoletana è morbida ed elastica, tanto che si può facilmente piegare in due “a libretto”, come dicono a Napoli, per essere comodamente mangiata per strada. I siciliani considerano tutto ciò un difetto. La loro pizza deve tendere alla croccantezza e per questo motivo i tempi di cottura sono più lunghi e nell’impasto viene aggiunto da alcuni pizzaioli dell’olio di semi che favorisce la croccantezza.

Cornicione. La sisiliana presenta un cornicione di dimensioni modeste, a volte appena accennato perché non è gradito. La napoletana, invece, ne ha uno vistoso. Ovviamente  è considerato un pregio.

Maculatura e puntinatura. Il cornicione della pizza siciliana si presenta uniformemente dorato ed è raro che sia cosparso “a pelle di leopardo” da macchioline marron scuro (maculatura) e da macchioline puntiformi (puntinatura).
A Napoli maculatura e puntinatura sono considerate un pregio perché indici di una perfetta cottura nel forno a legna. ,

Alveolatura. La presenza della semola rimacinata di grano duro comporta nella siciliana un’alveolatura più piccola.

In conclusione

Tutti i prodotti da forno denominati pizza sono tributari della pizza napoletana che è stata la prima a fregiarsi di questo nome ed è quella che continua a influenzare tutte le preparazioni analoghe. Lo è anche la siciliana, che tuttavia ha una sua identità precisa dovuta all’ibridazione con preesistenti. Manca, ed è auspicabile, un accordo tra i vari pizzaioli su una ricetta “ecumenica” e quindi codificata che metta d’accordo tutti conferendo un’identità ancora più forte a un prodotto già di successo.  

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