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La cottura alla brace. Cosa succede alle proteine mentre arrostiamo le carni?

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bistecca filetto

 

di Gianluigi Storto

Quello che fa il calore alle proteine della carne è davvero –dal punto di vista della proteina- spaventoso! Ma per capirlo meglio dovremmo prima dare uno sguardo a cosa sono le proteine.
Le proteine (il cui nome deriva dal greco protos = primo, a indicare che le proteine sono fra i costituenti primari, i sovrani dell’alimentazione) sono simili a delle costruzioni per bambini, quelle che si fanno attaccando fra loro mattoncini tutti uguali o quasi. Quasi perché ci sono quelli rossi ma anche quelli bianchi e quelli un po’ più grandi o un po’ più piccoli. Dopo di che i ragazzini, attaccandoli fra di loro, riescono a formare costruzioni molto diverse fra loro: case, garage ma anche automobiline, carri, addirittura animali e personaggi dei fumetti. Con le proteine è praticamente lo stesso: i mattoncini di base si chiamano aminoacidi e ce ne sono venti (più un paio molto rari che in genere non si incontrano da nessuna parte, a meno che non frequentiate archeobatteri).

Gli aminoacidi, come dice il loro nome, sono fatti come minimo da un paio di “gruppi” chimici: le ammine e gli acidi (carbossilici) più, in mezzo a loro, un altro po’ di roba, in genere catene più o meno lunghe e più o meno ramificate fatte in genere –ma non solo- da atomi di carbonio, idrogeno ed ossigeno. Il bello di tutta la faccenda, quello che rende gli aminoacidi interessanti come mattoncini da costruzione, è che l’ammina di un aminoacido si lega benissimo all’acido di un altro aminoacido in modo che gli aminoacidi possono legarsi fra di loro in catene lunghe a piacere e in combinazioni praticamente infinite, a secondo di quale aminoacido (fra la ventina disponibile) andate a prendere. Le proteine sono le catene formate attaccando fra di loro vari aminoacidi. Catene lunghette, in verità, visto che in genere una proteina contiene qualcosa come migliaia di atomi. E siccome gli scienziati sono un po’ noiosetti, hanno differenziato catene corte di aminoacidi, fino a circa una decina e le hanno chiamate “oligopeptidi”, catene più lunghe ma non troppo e le hanno definite “polipeptidi” e catene con centinaia di aminoacidi che hanno il nome di proteine vere e proprie.

Le proteine, catene formate da moltissimi aminoacidi, sono dunque dei veri e propri “filamenti” chimici, come tutti i fili in natura, tendono ad attorcigliarsi (chi almeno una volta nella sua vita è andato a pesca sa di cosa parlo!. E così alla cosiddetta struttura primaria delle proteine, quella data dalla successione degli aminoacidi lungo il “filamento”, segue una struttura secondaria (la struttura data da un primo attorcigliamento), poi una struttura terziaria, causata da un successivo attorcigliamento del filamento già attorcigliato su se stesso (ricordatevi sempre il filo da pesca!) e addirittura una struttura quaternaria, data dal quarto attorcigliamento della proteina su se stessa, in forme tuttavia mai casuali ma estremamente ordinate (a questo punto un pescatore sa che non c’è più niente da fare e butta via tutto. Vedremo che la “cottura” è proprio il trucco per sciogliere tutti questi nodi complicati…).

Ecco: le proteine sono cose fatte più o meno in questo modo, almeno finché si trovano nel loro ambiente naturale, ovvero un corpo vivo. Ma quando le mettiamo vicino a una fonte di calore forte, appunto la nostra carbonella accesa, che succede a quell’intreccio ordinatamente aggrovigliato di aminoacidi che abbiamo definito una proteina?

Il calore distrugge le forme di aggrovigliamento delle proteine, disfacendo le strutture e arrivando a spezzare in più parti il filamento primario dato dalla successione dei mattoncini – aminoacidi. A questo punto la proteina è “denaturata” come dicono i chimici. È quello che si vede benissimo a occhio nudo quando, per esempio, si mette in padella il bianco dell’uovo, che è formato in soprattutto dall’albume, una proteina che serve come primo alimento per i pulcini. Al calore l’albume cambia completamente aspetto e da liquido trasparente e appiccicoso si trasforma in una massa morbida ma compatta, opaca e bianca. Il fenomeno è causato dalla perdita dell’ordine proteico, dallo storcigliamento delle varie strutture e infine dalla rottura della catena proteica, con la “liberazione” di un insieme di politeptidi (ovvero catene più corte di quelle di una vera proteina) o addirittura di singoli aminoacidi. L’odore di zolfo che a volte si sente cucinando un uovo (oppure che proviene da un uovo andato a male, nel quale la rottura proteica è stata causata dall’invecchiamento naturale) deriva dalla liberazione dell’acido solfidrico, una molecolina che contiene zolfo. E l’acido solfidrico deriva dalla distruzione di un aminoacido presente nell’albume, la cisteina.

Lo spezzettamento e la rottura delle strutture più aggrovigliate delle proteine in realtà è un grosso vantaggio perché permette di assorbire i singoli aminoacidi. Perché l’alimentazione in fondo è proprio quello: noi siamo fatti da proteine ma diverse da quelle che mangiamo. E come facciamo a trasformare la carne di un pollo nella “nostra” carne (visto che in genere siamo un po’ diversi dai polli?). Semplicemente distruggiamo le catene proteiche della carne del pollo arrivando fino agli aminoacidi componenti, che abbiamo detto sono appena una ventina. Dopo di che, secondo regole di ricombinazione dettate dai nostri cromosomi, le riassembliamo in altre proteine, quelle che più ci servono! Ecco perché i polli, almeno quelli più fortunati, che mangiano i vermi, non sanno di… verme e noi non sappiamo di pollo!

Quindi il lavoro del calore, della cottura, è un grosso aiuto alla digestione e all’assorbimento degli aminoacidi. Accelera di un bel po’ il processo di rottura e ricombinazione necessari, che è alla base dell’assorbimento proteico. La cottura degli alimenti ricchi di proteine, come la carne, consiste per una buona parte proprio in questo processo di aiuto nella distruzione delle proteine degli aminoacidi componenti, distruzione che viene poi completata nello stomaco e nell’intestino ad opera di una serie di succhi ricchi di enzimi e altre diavolerie fatte apposta per spezzettare le proteine in olipopeptidi e questi negli aminoacidi di basee. Poi a ricombinare gli aminoacidi nelle proteine che servono, ci pensano le singole cellule dell’organismo che vengono rifornite dal flusso sanguigno di questi aminoacidi “liberi”.

Ovviamente, come in qualunque reazione chimica a caldo (o in qualunque ricetta culinaria, e con il tempo vedremo che spesso sono soltanto due modi diversi di chiamare la stessa cosa), esiste un “optimum” di temperatura -e altre condizioni- che non vanno superate. Con poco calore semplicemente la reazione di rottura delle strutture proteiche non parte ma con troppo calore il processo arriva fino a distruggere anche gli aminoacidi (e si arriva al famoso carbone nero del barbuecuista inesperto!). Quindi vanno regolate con grande attenzione temperatura e tempi di trattamento (come in qualunque reazione chimica o ricetta culinaria) in modo che lo spezzettamento proteico avvenga nel migliore dei modi.

 

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